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L’azzardo è il “selfie” dell’Italia

Machines à sous – slots – it

Adam Foster / Flickr / CC

Città Nuova - pubblicato il 10/07/14

Un Paese intero come laboratorio della grande industria dello slot. Intervista colloquio con Marco Dotti per una lettura in profondità di un fenomeno che racconta la società italiana. Alla ricerca di un nuovo legame sociale

di Carlo Cefaloni

La questione dell’azzardo presa sul serio apre a domande complesse sulla situazione della società italiana. Non solo sui poteri predominanti in campo finanziario e politico, ma sulla visione dell’essere umano che è messa in pericolo e degradata.

Ne parliamo con Marco Dotti che, come giornalista del mensile Vita, coordina un gruppo di ricerca sull’azzardo. Dotti è anche docente nel corso di laurea in comunicazione dell’Università di Pavia e ha pubblicato, di recente, diversi testi in materia di azzardo: Slot city. Milano-Brianza e ritorno (2013), Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana (2013) e No slot. Anatomia dell’azzardo di massa (2013). È un interlocutore importante per andare “oltre la slot economia” come indica il sottotitolo del libro Vite in gioco che Città Nuova ha pubblicato raccogliendo una pluralità di analisi e interventi generati dall’esperienza di Slot Mob. 

Dopo anni di indagini e approfondimento sulla questione dell’azzardo in Italia, si può dire che la normativa incentivante sia stata la causa del fenomeno?
«È stata parte di un ordine del discorso che nel suo complesso ha prima legittimato, poi incentivato e infine “naturalizzato” il fenomeno. Per dieci anni – ricordiamo che la prima slot machine legale è stata installata proprio nel 2004 – lo ha reso quasi normale, fino a che  complice la crisi, ma anche una rinnovata attenzione civica qualcosa si è inceppato. L’edificio, il sistema-gioco, si regge su un dispositivo di poteri (forti) e risorse (ingenti), ma ha anche bisogno dell’impalcatura (fragile) delle parole. Decostruendo certe parole d’ordine – gioco responsabile, ludopatia, gioco lecito – o ridefinendo l’ordine del discorso, l’impalcatura crolla»

E cosa resta?
«Resta l’edificio,ma nudo. E allora tutto si mostra per quello che è: messa a profitto delle vite, delle relazioni, delle emozioni di decine, centinaia di migliaia di uomini e donne che, come nella fiaba dei fratelli Grimm, i pifferai magici spingono quotidianamente verso il baratro. Ricordandosi però – come negli spot e nei manifesti che vediamo in Rai o per strada– di immortalarli con un bel sorriso sul volto. Poi possono anche morire, importante è che sorridano».

Si può affermare che il nostro Paese sia stato scelto come un laboratorio adatto a sperimentare certe pratiche da adottare in altre nazioni?
«Parlare di intenzione è sempre difficile, perché presuppone un “chi”, oltre a un “cosa” e un “come”. Ma qui possiamo senza dubbio affermare che, dalla fine degli anni ’90 a oggi, abbiamo assistito a una sperimentazione di fatto da cui molte aziende hanno tratto quel vantaggio competitivo che sono state in grado di spendere sui mercati internazionali. Ricordiamoci che “esportiamo” azzardo, in forma di tecnologia, ma anche di acquisizione di licenze per lotterie, gratta&vinci e via discorrendo, negli Usa, ma anche nello Zimbabwe».

Intenzione o meno, la situazione è evidente…
«L’Italia è diventata, di fatto, un laboratorio a cielo aperto, dove è stato possibile testare su cavie abilmente sedotte l’effetto sociale e istituzionale della diffusione capillare e intensiva di ogni possibile forma di azzardo, calato nella vita quotidiana. Al tempo stesso, a fronte di questa quotidianità è stata fatta passare l’idea di un’ ingenuità del prodotto, ovvero che quello di gioco sia «un prodotto come tutti gli altri», che talvolta può indurre problemi o dipendenza, ma solo se usato “irresponsabilmente”». 

E invece quale è la reale posta in gioco?
«Dobbiamo sempre tener presente che nel settore del gambling (o del gaming, come dicono loro) siamo davanti a aziende che non operano solo in quel settore, ma a fondi, multinazionali, società talvolta molto complesse, anche a dispetto delle struttura societaria lineare che appare dalle visure, che hanno interessi nell’editoria scolastica, nella formazione, nella riscossione dei tributi, nel pagamento elettronico, nella gestione di quella cosa per molti ancora oscura, ma di certo determinante che chiamiamo Big Data».

Che significa?
«In pratica, le informazioni raccolte su un campo, possono essere utili in un altro. Non parlo in termini del  customer profiling (definizione delle preferenze del consumatore), ma di profilo dell’umano. Al fondo di questa sperimentazione c’è un’idea di uomo, un’antropologia che tutto è fuorché ingenua, anche se per ingenua vorrebbe farsi passare. È a partire da questa antropologia che dissento. Il resto è una conseguenza».

Qui l’originale

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