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Molta gente fugge dalla Chiesa per paura di essere giudicata

fuga

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padre Carlos Padilla - pubblicato il 12/09/14

A volte molti non entrano perché temono il nostro rifiuto, temono il giudizio e la condanna

Il Signore ci manifesta il suo amore e ci assicura la sua presenza nel cammino: “In verità vi dico: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 15-20).

Gesù ci invita a chiedere, perché Egli è in mezzo a noi, perché non ci dimentica. Questa promessa è piena di speranza. Quando in due o tre ci riuniamo nel suo nome, Egli si fa presente, si avvicina, ci abbraccia. È nella nostra preghiera, si rende presente tra le nostre paure e preoccupazioni, ci porta la pace. È la forza della preghiera comunitaria. È l’espressione di un’unità impossibile da raggiungere solo con le nostre forze. Lì, tra noi, quando è Lui che ci convoca, c’è Gesù. Riunirci nel nome del Signore è la condizione. Quando Egli ci riunisce, si rende forte l’unione. È la comunione vera che nessuno può spezzare. Lo Spirito di Cristo ci unisce per sempre. Egli è in mezzo a noi ogni volta che ci uniamo nel suo nome, per Lui. Mi piace questa immagine.

Gesù in mezzo a noi. Gesù che ci unisce in un abbraccio. Molte volte non valorizziamo la forza di questa promessa. Egli non si disinteressa della nostra vita. È presente quando facciamo comunità, quando siamo Chiesa. Tertulliano diceva che non c’è un cristiano solo. Perché uno può essere cristiano solo in Cristo e Cristo è comunione, perché in Lui ci siamo tutti. In Lui siamo Chiesa, non uomini solitari. Un cristiano non può vivere in solitudine la sua comunione con Cristo. Vive sempre unito ad altri uomini con i quali cammina.

Per questo, ogni volta che preghiamo, anche se siamo soli, Cristo ci unisce a tutta la Chiesa. Ci rende Chiesa nella nostra preghiera piccola e fragile. Manifesta il suo potere nella nostra impotenza. La nostra preghiera personale e comunitaria rende presente Cristo tra gli uomini. Gesù ci viene incontro sulla via, ci parla, ci abbraccia. Nella preghiera impariamo ad ascoltare, a vedere, a comprendere, a guardare. La nostra preghiera è il cammino perché Cristo si renda presente. Ci lamentiamo con tristezza della nostra fragilità a pregare. Cristo è presente dove ci riuniamo nel suo nome. Non ha bisogno di una preghiera di qualità. Gli basta che esprimiamo il desiderio di stare con Lui, di camminare al suo fianco. La nostra impotenza, la nostra debolezza, commuove il cuore di Gesù che si abbassa, che viene da noi, al nostro fianco.

Non so se è per colpa dei nostri pregiudizi, o delle nostre individie, o del nostro spirito competitivo. Non so se è per le nostre ferite o per quella sensazione che abbiamo nel profondo di non valere tanto come vorremmo. Ciò che è certo è che ci costa accettare tutte le persone per come sono. Ci costa accettare il diverso, quello che è meglio di noi in qualche aspetto, quello che non la pensa allo stesso modo, quello che non si comporta come speravo. Ci costa accettare chi ci ha ferito, chi ci ha esclusi in qualche occasione.

E così, quasi senza rendercene conto, costruiamo muri, separiamo, dividiamo, escludiamo, rifiutiamo, giudichiamo, condanniamo. Il nostro cuore non è quel luogo in cui tutti possono sentirsi accettati in modo incondizionato. Nel Cammino di Santiago torno sempre a sperimentare che lì tutti sono accettati indipendentemente da dove vengono, da che lavoro fanno, da ciò a cui dedicano la propria vita, dalla loro situazione familiare. C’è una domanda che in genere non si pone a meno che la fiducia non lo permetta: cosa fai nella tua vita di tutti i giorni? A cosa ti dedichi? Non c’è un’indagine previa. Non si accettano le persone per la loro posizione economica, per il loro modo di vestire, per le loro amicizie, per la loro posizione sociale, per la loro lingua. Nel Cammino non ci sono differenze. Gli stessi ostelli, lo stesso equipaggiamento, gli stessi percorsi, lo stesso sforzo, la stessa vita ogni giorno.

È vero che il Cammino è solo una parentesi nella nostra vita reale, una scuola di apprendimento, una pausa per meditare sulla nostra realtà, ma forse lì impariamo ad accettare le persone senza etichettarle in anticipo, senza incasellarle, senza stabilire in anticipo cosa possiamo aspettarci da loro e quello che non ci daranno. È per questo che nella vita abbiamo bisogno di luoghi come il Cammino. Luoghi in cui essere accolti senza essere misurati in base al nostro comportamento, alla nostra idoneità, ai nostri meriti. Luoghi in cui altre persone ci amino per quello che siamo, non per i nostri successi. Luoghi in cui non ci giudichino per la nostra vita passata. Spazi in cui poter vivere senza bisogno di dimostrare sempre quanto valiamo. Luoghi in cui ci amino senza esaminare la nostra storia. Gesù ha vissuto così con i suoi. Non ha fatto un esame previo ai suoi discepoli per vedere se erano capaci e validi per la temeraria impresa di seguire i suoi passi.

Non ha voluto provare prima di chiamarli per vedere se valevano, se erano preparati, se rispondevano a tutte le aspettative. Sicuramente non avrebbero superato la prova, non avrebbero passato il colloquio di lavoro, non si sarebbero azzardati a seguire il Maestro. Per questo Gesù ha chiamato quelli che ha voluto e ha fatto di quel pugno di uomini uno spazio di famiglia, un luogo di incontro, una casa per la missione. Lì entravano tutti. Bastava voler camminare seguendo i suoi passi per far parte di quella strana comunità, uniti da un amore profondo per il Signore. Dove due o tre si riunivano, Egli era in mezzo a loro. Bastava voler sognare i suoi sogni. Bastava voler dare la vita per amore ed essere disposti a diventare pescatori di uomini. E tutto questo senza mettere da parte i propri limiti. Conoscendo la propria storia e accettandola. Conoscendo la propria povertà e la propria ricchezza. Potevano allora stare al fianco di Gesù senza dover rendere conto ogni sera.

Tutti abbiamo bisogno di un nido, di una casa in cui gettare radici. Abbiamo bisogno di una famiglia in cui riposare. Un luogo allegro in cui vivere con quella pace semplice che ha il cuore che riposa in Dio. La nostra famiglia dovrebbe esere quello spazio di allegria in cui poter riposare senza dover dimostrare nulla: «Se non trasformiamo la nostra famiglia in un regno di allegria, i nostri figli andranno a cercare altre allegrie fuori casa. In ogni comunità regnerà alla lunga un’atmosfera di allegria o un’atmosfera viziata» [1]. Servono spazi di allegria, di pace, di tranquillità, dove l’uomo possa essere se stesso. Luoghi in cui lasciare che le radici crescano profondamente. Se non è così, cercheremo fuori ciò che non abbiamo in casa. Vivremo disorientati, non avendo un nucleo. Così dovrebbe essere la Chiesa, la nostra Famiglia di Schoenstatt. Dice papa Francesco: «La famiglia cristiana esercita il suo apostolato attraverso l’ospitalità. Spalancate le vostre case e nello stesso tempo spalancate i vostri cuori. Una vera casa non può mancare di avere degli ospiti. L’arte dell’ospitalità può così diventare l’apostolato dell’ospitalità. Vivete in modo tale che ognuno di quelli che visitano la vostra famiglia desideri di vivere come voi».

Che tutti possano avere uno spazio in cui vivere. Uno spazio di libertà e di amore in cui ciascuno può agire liberamente. Diceva Jorge Bucay: «Per me, l’amore è la decisione sincera di creare per la persona amata uno spazio di libertà tanto ampio da permetterle di scegliere di fare con la sua vita, con i suoi sentimenti e con il suo corpo ci&
ograve; che desidera, anche quando la sua decisione non mi piace, anche quando la sua decisione non mi include» [2]. A volte è difficile trovare e dare questi spazi di accoglienza. Possiamo vederci diversi e ci costa amare quelli che sono differenti.

Incaselliamo gli uomini per la loro condizione sociale, per la loro provenienza, per le loro capacità, per il loro modo di essere. A volte siamo noi stessi a escluderci, senza che siano altri a farlo. L’autorifiuto ci allontana ed evita che rischiamo il dolore che può rappresentare il fatto di essere respinti. A volte molti restano senza entrare perché temono il nostro rifiuto, temono il giudizio e la condanna.

[1] J. Kentenich, Famiglia, Regno di Maria, Ritiro di Federazione di Coppie, 31. 05 – 04. 06. 1950
[2] Jorge Bucay, 20 pasos hacia delante

[Traduzione a cura di Roberta Sciamplicotti]

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