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Stile di vita
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L’armonia difficile e possibile di maschile e femminile

Abelardo ed Eloisa

© Public Domain

Edizioni Paoline - pubblicato il 24/11/14

Frati e monache di clausura insegnano l'amore di amicizia e come vivere in pienezza
di padre Ermes Ronchi

Tu sei per me vivace melodia. Io sono per te cantus firmus.

Seren Kierkegaard


Nell'epoca in cui l'Occidente, tra il XII e il XIII secolo, «inventa» l'amore moderno, così come oggi è inteso, santi come Francesco e, prima ancora, Bernardo di Chiaravalle portano un contributo determinante alla comprensione dell'amore d'amicizia: quando nell'orizzonte della loro vita entrano, gloriosamente e gioiosamente, delle donne, sanno esprimere, come nessun altro, i riti dell'amore d'amicizia; lo sanno interpretare come bellezza ed enigma dell'uomo e della donna; sanno gustarlo con animo adulto e fanciullo insieme.

II XII secolo è «il secolo della dominanza femminile» (G. Duby). La Vergine entra maestosamente in tutte le cattedrali, scortata da uno stuolo di sante donne: la Maddalena, speranza delle peccatrici, trionfa a Vézelay; le tre Marie (Maria di Betania, Maria di Cleofa e Maria di Magdala) approdano, secondo la leggenda, proprio nella terra dell'amore redento che è la Provenza, e il loro culto prende salde radici in Francia. E mentre nel cristianesimo si delinea una svolta verso i valori femminili, nelle corti cavalleresche si comincia a esaltare la donna. «Il culto della Vergine e quello della dama hanno motivazioni diverse, di cui la storia comincia appena a intravedere pulsioni e sviluppi, che però coincidono» (G. Duby).

Tra il XII e il XIII secolo si verifica una delle più grandi conquiste nel campo dei diritti umani: per la prima volta nell'Europa cristiana viene richiesto ufficialmente il consenso della donna per il matrimonio. E' il tempo di Abelardo (1079-1142) ed Eloisa. I loro nomi, benché sinonimi della passione amorosa, di un'avventura dello spirito che reca i caratteri dell'universalità, sono oggi finalmente compresi fra quelli di uomini e donne che intrapresero un'opera spirituale concepita in comunione: l'opera monastica del Paracleto fondato da Abelardo e dove Eloisa divenne abbadessa. Non sul terreno dell'amore umano, ma su quello della fede e dell'amicizia conobbero infine la grazia di pacificarsi come creature complementari, pensate da Dio come aiuto reciproco. E' il tempo del fin amor, dell'amor cortese, della «gaia scienza» delle cose d'amore, il gaio saber cantato dai trovadori.

Nell'epoca in cui l'Occitania catara, sconfitta, intraprende la conquista estetica dell'Europa con le armi della poesia e della musica, sono i monaci cistercensi a possedere il più ampio vocabolario amoroso del Medioevo, e non i trovadori. Anzi, molti tra i trovadori provenzali e occitani concludono la loro ricerca d'amore diventando monaci cistercensi, componendo canti indirizzati non più alla propria dama, ma al cielo. Folco di Marsiglia si fa cistercense a Le Thoronet; Bernard di Ventadorn, il massimo rappresentante dell'arte trobadorica, diventa monaco nell'abbazia di Dalon. E si immerge nel «sole», come aveva cantato nel suo canzoniere. La lingua dei trovadori ha fame della sovrabbondanza d'amore: per questo l'inevitabile approdo per molti di loro è l'abbazia.

II trobar è cercare parole per dire, con immagini belle e metafore di luce, con la musica delle parole e la poesia della musica, che cosa sia l'arte di amare, «l'arte delle arti» secondo il monaco Guglielmo di Saint-Thierry. Bernardo di Chiaravalle, il polemista spietato contro Abelardo, il predicatore di crociate, è anche il «seduttore della Borgogna», come diceva lo stesso Guglielmo. Colui che scrive la Regola monastica per i monaci guerrieri, i temibili Cavalieri del Tempio, i più efficienti soldati dell'epoca, scrive anche struggenti lettere d'affetto a Ermengarda. Colui che fa venire duchi e regine al suo monastero, devia e allunga i suoi viaggi di ministero solo per poter incontrare la sua amica Ermengarda. Francesco d'Assisi morente chiama al suo fianco l'amica che non ti aspetteresti.

Iacopa, Melisanda, Ermengarda, Teresa la Grande hanno un posto nella storia dell'amore in Occidente, e non solo nella storia della spiritualità. Perché «andare per amici» partendo da santi e monaci? Dovrebbe essere come un limite, a priori. Invece i grandi monaci, i santi poeti, propongono un nuovo progetto di umanità. Da loro affiora una pienezza del vivere, la bellezza di un cuore plurale, dove umanità e santità coincidono. Senza quel filone di letteratura nata nei chiostri non sarebbero neanche pensabili lo Stil Novo, la più pregevole poesia amorosa, Dante stesso. Se l'amicizia tra uomo e donna – che sia al contempo appassionata, fedele e libera dal retaggio dell'atto sessuale – sembra quasi irrealizzabile, proprio in questo punto di connessione tra amore e sessualità i monaci poeti possono portare un annuncio alternativo, una parola che viene da altrove, all'uomo e alla donna d'oggi.

UNA TEOLOGIA DELLE PASSIONI
A differenza dei grandi uomini del Medioevo, oggi noi, gente delle cose di Dio, non sappiamo più comprendere e trattare le passioni, abbiamo dimenticato la «gaia scienza». I monaci poeti possedevano una vera teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un'etica degli affetti, di una serie di prescrizioni. E' urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi vitali dell'uomo, come il grande dono dell'eros, una spiritualità che parli al cuore, il posto del corpo, l'aldilà, il rapporto con la natura e il cosmo, facendone una teologia, riconoscendoli come luogo teologico, e non riducendoli solo a una morale.

La vita non è statica, ma estatica. In cammino verso qualcosa che è al di là di sé. L'essere è estasi, è divenire, movimento, diffusione di sé, attrazione. La vita avanza per passioni, non per ingiunzioni. E la passione nasce da una bellezza. Acquisire fede è acquisire bellezza del vivere: è bello amare, sposarsi, generare, godere della luce e degli abbracci, gustare l'umile piacere di esistere; è bello essere di Dio e insieme del mondo; è bello attendere e stare con l'amico, perché tutto va verso un senso luminoso e positivo, nella finitezza e nell'infinito.

La vita non è etica, ma estetica. Nel suo senso letterale, estetico significa sensibile; il suo contrario non è il brutto, ma – letteralmente – l'anestetico, l'insensibile, l'immobile. Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità, necessaria per essere felice. Possiamo negarla ma non eliminarla. La dimensione degli affetti, fondamentale per l'equilibrio della persona, necessaria per vivere (se non amiamo, non viviamo: 1 Gv 3,14), e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico: l'amicizia rivela qualcosa di Dio.

Ogni vivente nasce come persona appassionata, e quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende molti cristiani dei predicatori di cose morte. Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del Vangelo: « sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10).

– Ami la vita?
– Sì, amo la vita.
– Allora hai fatto metà del cammino.
F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov

La santità non consiste in una passione spenta, ma in una passione convertita. Dio non è presente dove è assente il cuore.
E non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano.

LA POLIFONIA DEL CUORE
Dio non copre tutte le gamme d'onda del nostro cuore. L’amore di Dio non risponde a tutte le dimensioni del cuore dell'uomo, neppure del cuore del monaco. C'è una estensione delle capacità amanti dell'uomo, alla quale Dio non pretende di essere unico, geloso sbocco.

Infatti Gesù offre tre oggetti all'amore, diversi e non in concorrenza tra loro: ama Dio, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. La polifonia, appunto, dell'amore. «Amerai il Signore con tutto il cuore » (Dt 6,5) non significa: «Ama Dio solamente, riservando tutto il cuore a lui», ma: «Amalo con totalità, senza mezze misure». Così devi, allo stesso modo, amare il tuo amico: «con tutto il cuore», senza riserve. Ma non solo il tuo amico. La totalità del cuore non significa esclusività. «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), chiede il Signore, ma non già: «Non avrai altro amore all'infuori di me». La vita ha come sua sorgente un cuore plurale. Polifonia è termine che nasce da un insieme di cose complete e non diminuite. Non è figlia di sottrazioni, ma di addizioni. L'espressione «polifonia dell'esistenza» è stata coniata da Bonhoeffer in una lettera a un amico:

II rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire la polifonia dell'esistenza. Voglio dire che Dio e la sua eternità pretendono di essere amati dal profondo del cuore, senza però che l'amore terreno ne venga danneggiato o indebolito; qualcosa come un cantus firmus, in rapporto al quale le altre voci della vita formino il contrappunto. L'amore terreno, sponsale o amicale o familiare, segue la legge del contrappunto, i cui temi sono del tutto autonomi e tuttavia correlati al «canto fermo» (l'immagine musicale è mutuata da S. Kierkegaard: «Tu sei per me vivace melodia. lo sono per te cantus firmus»).

Scrive Bonhoeffer:

[…] anche nella Bibbia c'è infatti il Cantico dei cantici, e non si può veramente pensare amore più Caldo, sensuale, ardente di quello di cui esso parla (cfr. 7,6!); è davvero una bella cosa che appartenga alla Bibbia, alla faccia di tutti coloro per i quali lo specifico cristiano consisterebbe nella moderazione delle passioni (dove esiste mai una tale moderazione nell'Antico Testamento?). Dove il cantus firmus è chiaro e distinto, il contrappunto può dispiegarsi col massimo vigore. Per parlare con il Calcedonese, l'uno e l'altro sono « indivisi eppure distinti », come lo sono la natura divina e la natura umana di Cristo. La polifonia in musica non ci sarà magari così vicina e importante per il fatto di costituire il modello musicale di questo fatto cristologico e dunque anche della nostra vita christiana? […] Volevo pregarti di far risuonare con chiarezza nella vostra vita insieme il cantus firmus, e solo dopo ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene, e resterà tuttavia qualcosa di specifico, di totale, di completamente autonomo. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita è totale, e contemporaneamente sappiamo che non può succedere nulla di funesto finché viene mantenuto il cantus firmus. Forse diventerà più facile sopportare molte cose, in questi giorni di vita insieme e in quelli della separazione che probabilmente verranno. […] abbandònati al cantus firmus.
Un rischio implicito in ogni grande amore è quello di smarrire, in nome appunto di un amore totalizzante, la polifonia dell'esistenza.

Tale smarrimento è stato una delle conseguenze più negative di un malinteso, deviante amore sacro, che si è tradotto – in troppi luoghi religiosi – in incapacità di amicizia, freddezza di rapporti, acidità delle relazioni, brinate sui sentimenti, distorsioni delle proposte affettive. E come immiserire la vita, perché all'infuori delle relazioni non esiste manifestazione dell'infinito. La cosa più importante dell'esistenza restano i rapporti umani. L'opposto della polifonia è la monotonia. Un termine che indica un venir meno, una vita vissuta (cantata) su di un tono solo, su di una sola dimensione, un solo amore: la monotonia come noia del vivere. Contro il rischio dell'impoverimento dell'esistenza, Clemente Rebora definisce la vita «una multanime fiamma». Una fiamma con molte anime, un'anima con molti fuochi, polifonia. Smarrendo il cuore plurale, la vita spirituale vegeta come frutto di sottrazioni, si disidrata nell'illusione di amare Dio perché non ama nessuno sulla terra!

D'altra parte, si potrà perdere la polifonia dell'esistere anche coltivando soltanto rapporti umani; nell'ansia del riconoscimento e del signi­ficare tutto per l'altro, senza la luce dei grandi pensieri e di un grande amore, si corre il rischio di arrivare a un culto monotono dell'umano. Tuttavia resta il lieto annuncio che la cosa più bella del mondo sono le creature. Al punto da sedurre con un centuplo chi ha lasciato tutto: questa moltiplicazione utopica ha come oggetto non tanto le cose materiali, quanto le relazioni  umane. Gesù non fa che ribadire che si tratta di fratelli, sorelle, figli, madri, padri: che si tratta di una proliferazione di affetti, di nuove creatu­re da amare, di nuovi oggetti d'amore! II centuplo promesso è una proliferazione d'amicizia. E, di passaggio, ci sono anche la ca­sa o i campi, ma nella debita proporzione, in un rapporto di frequenza di 2 a 4 (Mc 10,28-30) o di 2 a 5 (Mt 19,27-29).

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