Essere un medico oggi
Essere medico, perché? Come? Mi è stata posta questa domanda, è stata posta solo a me e la mia risposta vale solo per me. È dunque una testimonianza quella che offro, ma può forse portare a osservazioni d’interesse generale. Posso rispondere solo immergendo il mio sguardo dentro quell’universo così poco conosciuto che è me stesso.
Una prima immagine forte e decisiva è rimasta impressa nella mia memoria di bambino: un uomo coperto di stracci è seduto contro una palizzata e chiede l’elemosina. Io accompagno mio padre, devo avere otto anni, lui si ferma come fa sempre a qualche metro da quell’uomo senza fissa dimora, tira fuori dei soldi dalla tasca e mi dice dolcemente: «Va e mettili nella sua mano, ma digli “buongiorno signore”, sorridigli e non scappare via subito». Allora ho capito che non si può fare senza trovare il tempo per parlare.
Un altro vecchio ricordo: una giovane donna olandese che viene a cenare a casa, invitata dai miei genitori che l’hanno ospitata a Parigi all’Hotel Lutetia, una volta uscita da Ravensbrück. Conosco già l’esistenza dei campi di concentramento, ma percepisco nei mei genitori un’attenzione quasi deferente per questa donna che è sopravvissuta: una parola misteriosa che mi fa capire che c’è un altrove vicino e minaccioso a cui, ancora adesso, bisogna strappare quella persona. Nella mia mente di bambino nasce l’idea che la vita è circondata di morte che bisogna scacciare.
Forse questa attenzione rivolta all’altro e questa percezione della vicinanza della morte hanno avuto un ruolo importante nei miei orientamenti futuri. Mentre, a diciotto anni, esitavo tra la fisica, la geologia e la zoologia, un giorno la decisione mi si è imposta con una forza e un’evidenza tali che mai nel corso della mia vita, in nessun momento, sono stato assalito dal dubbio. Non sono stato io a scegliere la medicina, è la medicina che mi ha scelto e io l’ho seguita.
Ho quindi cominciato i miei studi nel 1960, in un momento in cui la medicina si distaccava dall’universo relativamente tranquillo che l’aveva caratterizzata dall’inizio del xx secolo e si ritrovava sconvolta dalla rivoluzione della farmacopea e, un po’ più tardi, da quella della strumentazione.
In questo mestiere si studia tutta la vita, e io ho acquisito attivamente conoscenze in modo costante fino al 1992. Era per me evidente che non ci si può presentare davanti a un pazienze con l’idea che forse lo si può aiutare a guarire senza un solido bagaglio, che va continuamente arricchito. Percepivo la disonestà insita nel non dominare la propria materia tanto quanto le proprie forze lo consentono.
Non ho meriti: ho avuto la fortuna di far parte di una scuola di pensiero eccezionale, la scuola di Claude Bernard a Parigi, dove, davanti a malati in rianimazione medica, in condizioni gravissime, non era permesso fare nulla senza avere prima debitamente motivato con solidi argomenti la propria scelta terapeutica in una riunione d’equipe.