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I «vescovi parroci» per la Chiesa italiana

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FILIPPO MONTEFORTE

Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 27/10/15

Il criterio delle ultime scelte di Francesco, da Padova a Bologna a Palermo. La proposta di una «conversione pastorale» fuori dai facili slogan e dagli schemi precostituiti

Prima di Bologna e Palermo, c’era stata Padova. Con la nomina a sorpresa del sacerdote mantovano don Claudio Cipolla, approdato dalla sua parrocchia alla cattedra della diocesi del Santo, la quarta d’Italia per estensione. Con le nomine di Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, la scelta di Francesco si ripete. Certo, Zuppi non arriva alla guida della diocesi felsinea da semplice parroco, ma da vescovo-parroco, ausiliare di Roma, pastore vicino ai suoi sacerdoti e alla gente. Mentre fa ancora più scalpore che nel capoluogo siciliano venga inviato come arcivescovo un (relativamente) giovane parroco della diocesi di Noto.

Di per sé, l’arrivo su cattedre episcopali importanti per antica tradizione ed estensione, non è una novità nella storia anche recente della Chiesa. Basti pensare soltanto che Milano, la diocesi più grande d’Europa e una delle principali del mondo, nell’ultimo secolo ha avuto ben tre pastori arrivati all’episcopato sulla cattedra ambrosiana: Alfredo Ildefonso Schuster, Giovanni Battista Montini, Carlo Maria Martini. I primi due sono già beati, il secondo ha dovuto lasciare Milano perché eletto Papa. I loro profili sono però diversi da quelli delle ultime nomine di Francesco: Schuster era un abate benedettino che Papa Ratti volle inviare come arcivescovo di Milano nel 1929, un anno dopo che aveva concluso per conto della Santa Sede una visita apostolica nel seminario ambrosiano. Montini non era vescovo, ma al momento della nomina milanese – da lui inizialmente vissuta come un «esilio» – contava più di un vescovo ed era pro-Segretario di Stato, principale collaboratore di Papa Pacelli. Infine Martini,  gesuita, biblista, era un professore della Gregoriana quando Giovanni Paolo II lo scelse, nel dicembre 1979.

Nelle due nomine odierne, ad emergere sembra essere un altro criterio: il prevalere dell’esperienza e del servizio pastorale sul campo. Non tanto o non soltanto la frequentazione delle aule accademiche e dei simposi (ambiente dal quale peraltro non è affatto alieno il nuovo arcivescovo di Palermo, don Lorefice) ma la fatica quotidiana della vita in parrocchia. Con una particolare attenzione al servizio per gli ultimi, i più poveri. Il Papa, oltre a essere vescovo di Roma, è anche primate d’Italia e ha uno speciale legame con la Conferenza episcopale italiana, l’unica a tenere le sue assemblee generali in Vaticano. Le ultime tre scelte di Papa Bergoglio marcano certamente un cambio di rotta per quanto riguarda i meccanismi di selezione dei vescovi da inviare alla guida di diocesi così vaste e storicamente significative. Vi si può leggere in filigrana l’identikit del pastore sul quale più volte Francesco ha insistito: che sta non soltanto davanti al gregge, ma anche in mezzo al gregge per confortare, e dietro il gregge, per far sì che nessuno si perda tra coloro che fanno più fatica.

Non si tratta di cambiare nuove parole d’ordine di stampo «bergogliano» sostituendole con le precedenti frasi fatte apprezzate dal mainstream del potere ecclesiastico. La portata di queste scelte, soprattutto nei casi di Padova e Palermo (come Zuppi faccia il vescovo ausiliare a Roma è infatti già abbastanza noto), si vedrà sul campo nel prossimo futuro. La riuscita di ogni episcopato, al di là dei limiti delle persone, si gioca soprattutto nel rapporto con il clero e poi con la gente: cioè se i preti trovano nel vescovo qualcuno che accoglie, ascolta, consiglia e non allontana. E se la gente riconosce nel vescovo la figura di un pastore che non gestisce un potere sacro ma con semplicità si fa vicino e accompagna. Allora potrà anche non avere la carica di sant’Ambrogio nel predicare, o non raggiungere sempre le vette di sant’Agostino nelle sue lettere pastorali, ma potrà essere, nella sua diocesi un testimone autentico, «un povero Cristo vicario di Cristo» come si definì, salutando i cardinali che l’avevano eletto, Papa Luciani.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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