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Vi racconto la Chiesa uscita dal Concilio Vaticano II

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 05/11/15

“Non ha mancato né di coraggio né di fedeltà”

Avevo cercato di raccontare, in un precedente articolo, come fosse la Chiesa prima del Concilio Vaticano II. Adesso, invece, proverò a dare una prima idea complessiva, anche se molto sommaria, di quello che è stato il Concilio. E, per cominciare, vorrei riproporre una considerazione, che ritengo molto azzeccata, fatta allora dal cardinale François Marty, arcivescovo di Parigi. “La Chiesa cattolica, paragonandola a tutte le grandi organizzazioni internazionali, è stata la prima e fors’anche la sola che ha fatto il suo Concilio. E nel riformarsi, nel convertirsi, la Chiesa non ha mancato né di coraggio né di fedeltà”.

Era, di fatto, ciò che aveva profeticamente intuito Giovanni XXIII decidendo di convocare il Concilio. Aveva intuito l’occasione provvidenziale che si presentava alla Chiesa, per guardare dentro se stessa con più umiltà e autenticità, per tornare alla purezza delle sue fonti, a una più trasparente fedeltà all’immagine divina impressa sul suo volto. E, nello stesso tempo, guardare agli uomini con più fiducia e comprensione, per stargli accanto, solidale con la loro storia e i loro problemi. “Deve la misticanavicella di Cristo rimanere in balìa dei flutti ed essere sospinta alla deriva – aveva detto papa Roncalli – o non è piuttosto da essa che si attende non solo un nuovo monito ma anche la luce di un grande esempio?”.

Così, rispetto ai venti precedenti Concili, il Vaticano II fu il primo a non occuparsi di scismi e di eresie, a non proclamare nuovi dogmi, né a lanciare anatemi; ma si caratterizzò per una impostazione fondamentalmente pastorale, ecumenica, propositiva e positiva. E fu anche il primo Concilio di una Chiesa realmente universale. Dunque, non più marcatamente eurocentrica, ma rappresentativa dell’intera cattolicità. Molti vescovi asiatici e soprattutto quelli africani erano autoctoni, e non più, come al Vaticano I, degli europei “esportati” in quelle regioni.

Arrivati da ogni parte del mondo, i più di 2.500 padri conciliari erano portatori di sensibilità, esperienze e proposte le più diverse. Eppure, attraverso il confronto quotidiano e l’ascolto reciproco, cominciarono a riflettere – insieme – sulla vita della Chiesa alla luce della S. Scrittura e della Tradizione più antica. Ma andarono anche a scavare nelle pieghe di una storia talvolta oscura e controversa, come quella degli ultimi secoli. E, giorno dopo giorno, i vescovi divennero sempre più consapevoli di avere una responsabilità, non solo delle rispettive diocesi, ma anche sul piano universale. In questo modo, cresciuto e rafforzatosi sempre più un sentire comune, fu possibile raggiungere un vasto consenso anche sulle questioni più complesse, più dibattute.

Inevitabilmente, perciò, vennero buttati a mare i settanta schemi preparatori. Sui quali, certo, ci aveva messo le mani la Curia romana, ma erano anche il risultato delle richieste a suo tempo avanzate dall’episcopato mondiale. E adesso, nella sua stragrande maggioranza, quello stesso episcopato, maturato in Concilio, scelse una strada diversa. Da una visione di Chiesa clericalizzante, descritta in termini scolastici, giuridici, e sempre accompagnati da condanne; si passò a una visione di Chiesa decisamente innovatrice, una Chiesa vista nella sua realtà interna (ad intra) e nella sua attività esterna (ad extra). E, il primo segno di quel cambiamento, si percepì nel linguaggio, ora più dialogico, pacato, mai contro: si parlava di “invito” e non più di “comando”, di “servire” al posto di “comandare”.

Da qui, dai sedici documenti del Concilio, uscì una “nuova” Chiesa. Ma non perché fosse stata stravolta la sua natura. E infatti, il Vaticano II si è situato in una linea di piena continuità con la Tradizione e il Magistero precedente. Ha solo portato alla luce quegli elementi che esistevano implicitamente nel depositum fidei, o che, per quanto già posseduti dalla Chiesa, si erano affievoliti nella coscienza ecclesiale, sotto la pressione di determinate circostanze storiche, politiche o culturali.

E dunque, la vera novità stava nel fatto che, nella costituzione dottrinale Lumen gentium, fosse nuova l’immagine della Chiesa, il suo presentarsi anzitutto come sacramento universale di salvezza, mistero di comunione, prima e più ancora che realtà gerarchica e giuridica. E poi, la Chiesa come “popolo di Dio”, fondata sull’unità dei suoi membri (in forza del comune battesimo e dell’eguale chiamata all’apostolato e alla santità) prima che sulla diversità delle rispettive funzioni. E infine, la Chiesa riscoperta nella sua dimensione collegiale, ristabilendo così un equilibrio tra l’autorità del Papa e il collegio dei vescovi.

Era una novità che coinvolgeva la vita della comunità cattolica, la sua maniera di pregare, di santificare, di evangelizzare; e, quindi, tutte le componenti del popolo di Dio, con i laici finalmente considerati come membri a pieno titolo della Chiesa. E poi, un cambiamento ugualmente radicale nel concetto di libertà religiosa, nei rapporti con le altre Chiese cristiane, con le altre religioni, in particolare l’ebraismo, e infine nell’atteggiamento verso il mondo. Nella costituzione Gaudium et spes, la Chiesa riconosceva di non avere il monopolio assoluto di ciò che è umano; ma, proprio per questo, recuperava profezia e credibilità per parlare di Dio all’uomo moderno. Mons. Roger Etchegaray, oggi cardinale, aveva commentato: “La Chiesa non haavuto paura di abbassare i suoi ponti levatoi”.

Ebbene, se cinquant’anni fa la Chiesa non ebbe paura, perché oggi i cattolici dovrebbero aver paura ad abbassare i ponti levatoi?

Non è un segreto che, in certi ambienti, persista una forte ritrosia ad accettare che il Vaticano II abbia rappresentato, in alcune problematiche, una qualche discontinuità con il passato. E non l’accettano perché convinti che ciò comporterebbe una contrapposizione tra la Chiesa di prima del Concilio e la Chiesa post-conciliare. Ma è un errore! La Chiesa di Cristo è sempre la stessa, con le sue verità di fede, la sua Tradizione, il suo Magistero. E comunque, come si sottolineava nella costituzione Dei Verbum, è sempre possibile uno sviluppo della dottrina: “Cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse”.

Basti pensare alla dichiarazione Nostra aetate, che dopo duemila anni cancellò l’accusa di deicidio nei riguardi degli ebrei. O la dichiarazione Dignitatis humanae, che riconobbe solennemente la libertà di coscienza, condannata in passato da alcuni Pontefici. E questi, non sono forse esempi di continuità con la Tradizione e, insieme, di cambiamento? Nel famoso discorso sulla “giusta interpretazione” del Concilio, un discorso che andrebbe riletto per bene, Benedetto XVI concluse dicendo che la natura della vera riforma consiste proprio in “questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”.

E allora, perché questi timori? Perché non riconoscere che, grazie al Concilio, la Chiesa ha dimostrato la sua capacità – come aveva fatto, del resto, anche ai Concili di Nicea e di Trento – di cambiare cose che per tanto tempo erano invece sembrate immutabili? C’è il rischio, altrimenti, di indebolire, se non di banalizzare, la grande novità che il Vaticano II ha rappresentato. O, peggio ancora, con questo insistito e unilaterale richiamo alla continuità, c’è il rischio di depotenziare l’unica vera possibilità di attirare l’attenzione delle nuove generazioni, già così prevenute verso la Chiesa, considerata una istituzione immobile, incapace di cambiare, di rinnovarsi.

Ma c’è un altro pregiudizio, o comunque un luogo comune, dal quale bisognerebbe liberarsi. Quello, cioè, di attribuire al Vaticano II – dandone così un giudizio negativo la responsabilità dei danni e degli eccessi, che hanno purtroppo lastricato il cammino post-conciliare. “L’albero si vede dai frutti”, si è soliti dire. Ma è sempre vero? Se arriva la grandine, i frutti cadono a terra prima di maturare o marciscono rapidamente. E allora, è colpa dell’albero? E’ colpa del Concilio, se una insufficiente attuazione o una errata interpretazione dei testi conciliari hanno provocato dei guasti nella comunità ecclesiale?

E’ successo proprio questo con la riforma liturgica. All’inizio, non si prestò adeguata attenzione alla progressiva scomparsa del latino – malgrado il Vaticano II ne avesse raccomandata la conservazione – sotto l’incalzare frenetico delle altre novità liturgiche. E poi, man mano che passavano gli anni, s’è verificato un continuo “impoverimento” delle Eucarestie domenicali, spesso ripetitive, di routine: e dove – tra canti banali, assenza di momenti di silenzio e di raccoglimento, e la famosa “partecipazione attiva” dell’assemblea ridotta a gesti esteriori, alle parole – si è avvertita sempre meno la presenza di Cristo. Ma, tutto questo, era la diretta conseguenza di una mancata formazione liturgica dei fedeli e, prima ancora, dei pastori. E non si può perciò attribuirlo a una riforma, la prima del Concilio, e che oltretutto aveva anticipato i fondamenti di una nuova ecclesiologia, e la straordinaria apertura alle tradizioni, alle culture e all’indole dei vari popoli.

Ed ecco perché è necessario “tornare al Concilio”, come diceva Giovanni Paolo II. E tornare a quell’evento, oggi, significa anzitutto conoscerne i documenti, capire quel che i padri conciliari avevano voluto affermare. E poi, significa recuperare il senso autentico del Vaticano II, e cioé la portata storica del disegno riformatore che da lì era uscito, e che, cinquant’anni dopo, non ha perduto niente della sua fecondità, della sua attualità. Papa Francesco ha già rimesso in moto il processo delle riforme, pastorali e istituzionali. Ma è evidente che a quest’impresa dovranno dare il proprio contributo tutti i membri del popolo di Dio, e i laici per primi. Soltanto così, il Concilio Vaticano II potrà essere la “bussola” che guiderà i cristiani sulla strada della nuova evangelizzazione. E potrà dare – con il sostegno spirituale del Giubileo della Misericordia – un “supplemento d’anima” a una umanità in crisi profonda.

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