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E il Concilio scrisse la parola fine

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Wikimedia Commons/Peter Geymayer/Public domain

Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 07/12/15

L'8 dicembre di cinquant'anni fa la chiusura del Vaticano II

Era cominciato al chiuso, nella basilica di S. Pietro, e con una cerimonia che sembrava di altri tempi, perché un po’ barocca, se non sfarzosa. Invece, con un cambiamento carico di simbolismo, e di nuovi significati, il Concilio Vaticano II si chiuse all’aperto, di fronte a una folla immensa. I 2.500 padri conciliari, con i loro piviali bianchi e argentei, attraversarono processionalmente la piazza, com’era stato all’inizio, ma stavolta non entrarono nel tempio. Paolo VI celebrò la Messa in latino sul sagrato. Era l’8 dicembre del 1965, festa dell’Immacolata. Una mattinata ventosa ma non fredda. Sulle facce di tutti – e, per prima, su quella del Papa – si poteva leggere una grandissima emozione.

Il giorno prima, contemporaneamente a Roma e a Costantinopoli, cattolici e ortodossi avevano “cancellato dalla memoria” le scomuniche del 1054, quelle del grande scisma d’Oriente. Il che ovviamente non metteva fine allo stato di divisione, né andava oltre l’autorità delle due Chiese, non implicando l’adesione dell’intera Ortodossia orientale. Intanto, però, quell’atto rimuoveva il più grosso ostacolo psicologico a una futura riconciliazione. Prima di lasciare Roma, il metropolita Meliton, capo della delegazione patriarcale, aveva voluto deporre nove rose sulla tomba di Leone IX (nel cui nome era stata emanata la scomunica) a ricordo dei nove secoli di separazione.

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Commons Wikimedia/Lothar Wolleh

La nuova stagione ecumenica cominciava già a dare i primi frutti. Una delle “brecce”, appunto, che il Vaticano II – come osservava il cardinale Franz König, arcivescovo di Vienna – aveva aperto nell’isolamento in cui, nei tempi passati, le circostanze storico-politiche culturali e religiose avevano costretto la Chiesa di Roma: l’isolamento, cioè, dal popolo, dalle altre Chiese cristiane, dal mondo. E tutto questo, adesso, era finito per sempre. Il Concilio aveva segnato un nuovo inizio. Che era stato così “fotografato”, in una mirabile sintesi dei documenti conciliari e, soprattutto, delle quattro costituzioni: “La Chiesa, alla luce della parola di Dio, celebra i misteri di Cristo per la salvezza del mondo”.

E ora, nel rito conclusivo, per bocca di Paolo VI, questa Chiesa poteva finalmente dire – dire per essere ascoltata – che nessuno le era estraneo, nessuno era escluso, nessuno era lontano. “Anche a voi, uomini che non ci conoscete; uomini che non ci comprendete; uomini, che non ci credete a voi utili e necessari, ed amici; e anche a voi, uomini, che, forse pensando di far bene, ci avversate! Un saluto sincero, un saluto discreto, ma pieno di speranza; ed oggi, credetelo, pieno di stima e d’amore.” Non era un saluto di congedo che distacca, ma “di amicizia che rimane, e che, se del caso, ora vuol nascere”, per accendere una “nuova scintilla della divina carità”; e far sì che nella Chiesa e nel mondo possa attuarsi “quel rinnovamento di pensiero, di attività, di costumi, e di forza morale e di gaudio e di speranza, ch’è stato lo scopo stesso del Concilio”.

Vennero poi letti i “messaggi” al mondo: e, in particolare, ai governanti, agli uomini di pensiero e di scienza, agli artisti, alle donne, ai lavoratori, ai poveri, agli ammalati, ai sofferenti, e ai giovani. Dopo la lettura di ogni messaggio, papa Montini ne consegnava il testo ai rappresentanti delle categorie a cui era rivolto. C’era il filosofo Maritain, c’era il poeta Ungaretti, c’era un operaio milanese, e anche un cieco accompagnato dal suo cane lupo. Si finì con la promessa di adesione e di fedeltà al Concilio, e l’augurio dell’avvento della pace e del regno di Cristo. L’ultima benedizione e il commiato di Paolo VI: “Andate in pace”. Erano le 13,20.

Il Concilio era terminato. Ma, in quello stesso istante, cominciava il suo cammino lungo le strade del mondo, era portatore di una nuova visione di Chiesa. Nuova per la preminenza ora data al mistero, rispetto alle strutture puramente istituzionali e giuridiche. Nuova per l’accento posto sull’unità del popolo di Dio – messo di proposito prima della gerarchia – più che sulla diversità dei suoi compiti e delle sue funzioni. Nuova perché la Chiesa riconosceva di aver sempre bisogno di purificarsi e di rinnovarsi. Nuova per l’ingresso di Roma nel movimento ecumenico. Nuova per l’apertura al dialogo con il mondo contemporaneo, non più guardato aprioristicamente come un nemico. Insomma, una Chiesa più evangelica, più umile, più libera, fiduciosa non nel proprio potere ma nella forza della parola di Dio.

Descritta così, in alcuni dei suoi tratti essenziali, la nuova immagine della Chiesa era comunque già splendidamente raffigurata in quella scena in piazza S. Pietro: il Vaticano II che si chiudeva all’aperto, tra la gente. Come dire che la Chiesa usciva finalmente dai “sacri recinti”, per meglio manifestare la sua missione in mezzo a tutti gli uomini. Una Chiesa riscoperta come popolo di Dio, pellegrinante. Un continuo avanzare verso nuovi orizzonti. Un continuo scrutare i “segni dei tempi”, i momenti sempre diversi della storia umana. E perciò, in una prospettiva aperta, dinamica, creativa.

E adesso, cinquant’anni dopo, quella nuova immagine di Chiesa, plasmata dal Concilio, è come se si trasfondesse nella “Chiesa in uscita” di papa Francesco. La Chiesa – come lui spesso ripete – deve andare nelle periferie geografiche, sociali, e anzitutto umane, esistenziali. Deve andare là per portare il messaggio di Cristo, per sanare le “ferite”, e per sostenere il sacrosanto diritto di milioni di esseri umani a una vita più degna. Ma oggi, per la Chiesa, è venuto il momento di andare nelle periferie del mondo anche per un altro motivo. Deve andarci per riconsiderare da là – e cioè da un punto di osservazione che non sia condizionato in partenza da una visione troppo istituzionale, e da una mentalità troppo “gerarchizzata” – la propria identità, la propria missione evangelizzatrice.

Non è stato forse anche questo, il senso profondo della decisione di Francesco di aprire il Giubileo della Misericordia in una delle periferie più martoriate, la Repubblica Centrafricana? E di trasformare Bangui, come lui stesso ha detto, nella “capitale spirituale del mondo”? In una terra dilaniata da una guerra civile che contrappone musulmani e cristiani, è stata una forte testimonianza di come, grazie al dialogo tra le religioni, sia possibile arrivare alla riconciliazione, e quindi ricostruire assieme un futuro migliore. Ma è anche stata, altrettanto forte, una testimonianza di come la Chiesa, proprio da là, debba cominciare a chiedersi – come chiedeva il Concilio cinquant’anni fa – se sul suo volto “risplenda più chiara l’immagine di Cristo”.

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