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Una casa aperta all’accoglienza: ieri le vittime della Shoah, oggi i rifugiati

Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 19/01/16

Le suore di san Giuseppe di Chambery, a Roma, continuano una tradizione di ospitalità iniziata nel buio della persecuzione antisemita

Centinaia di persone salvate per un “sì” o condannate per un “no”. Una porta che si è aperta o una porta che si è chiusa di fronte a chi cercava scampo dalla morte. La disponibilità a mettere in gioco la propria vita per salvarne un’altra. Nella paura, nell’angoscia quotidiana di trovare da mangiare per ospitanti e ospitati, nel dubbio sugli amici di cui potersi fidare in tempi pericolosi. A Roma, a partire dal 16 ottobre 1943, il giorno della razzia nel Ghetto e della deportazione ad Auschwitz di 1024 ebrei romani, si era aperta una partita tra nazisti e conventi o monasteri che avevano accolto l’appello di Pio XII a dare rifugio ai perseguitati. Nel “grande gioco” della lotta per la vita entrarono anche le suore di san Giuseppe di Chambery, a via del Casaletto a Roma. Le religiose, che gestivano un istituto scolastico, elaborarono una strategia semplice ma efficace, come racconta Maria Cristina Gavazzi, superiora provinciale per l’Italia delle suore di S. Giuseppe di Chambery.

Le ispezioni dei nazisti non mancarono e furono tanti i momenti che le suore vissero con il cuore in gola, anche perchè i tedeschi avevano una propria base poco distante, a Villa Coen, ed erano soliti visitare le suore per recarsi a Messa o, addirittura, nel caso di un capitano di nome Sigmund, per suonare l’armonium della chiesa. Solo la mano della Provvidenza, assicurano le suore, fermò un giorno alcuni militari arrivati all’improvviso che stavano salendo nelle aule del secondo piano dove dormivano i rifugiati. Nel 1997, suor Emerenziana Bolledi (nella foto) – l’unica delle testimoni di quel tempo ancora in vita – e la direttrice della scuola, suor Ferdinanda Corsetti, sono state riconosciute dallo Yad VashemGiuste tra le Nazioni.

suor emerenziana bolledi

Molti anni sono passati da quell’inverno tra il 1943 e il 1944: nel 2015 la Fondazione internazionale Raoul Wallenberg ha scoperto una targa commemorativa sul muro esterno della scuola, con la quale l’edificio di via del Casaletto è stato dichiarato Casa di Vita.

Purtroppo, però, non cessano i conflitti. Se ieri erano gli ebrei a fuggire dalle loro case e nascondersi ai persecutori, oggi uomini e donne di altre culture e altre religioni arrivano in Europa per cercare un luogo dove vivere in pace: afghani, iracheni, siriani, etiopi. Le suore di via del Casaletto, in collaborazione con il Centro Astalli – la sede italiana per il Servizio per i rifugiati dei gesuiti, hanno aperto di nuovo aperto le porte a chi è in difficoltà, prima ancora che lo chiedesse papa Francesco.

In quella che era la casa del contadino, vivono oggi quattro rifugiati. Due di essi lavorano in campagna; gli altri hanno dei lavori all’esterno e l’alloggio li aiuta nella gestione delle spese in una città come Roma dove il costo della vita è alto.

Una goccia, nel mare delle necessità di milioni di migranti, ma come afferma il Talmud: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.

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