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Perché Gesù dice: “Chi ha lasciato i figli per il mio nome avrà la vita eterna”?

Sacred Heart of Jesus 01 © Nancy Bauer / Shutterstock.com – it

© Nancy Bauer / Shutterstock.com

Toscana Oggi - pubblicato il 19/09/16

Una domanda su un celebre versetto del Vangelo di Matteo sulle condizioni per seguire Gesù

Gesù nel Vangelo dice: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna». Mi ha colpito il riferimento ai figli: è davvero possibile che Gesù chieda a un genitore di lasciare i figli per seguirlo? Come vanno interpretate quelle parole?

Lettera firmata

Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale

Il lettore fa riferimento alla versione di Matteo di un celebre detto evangelico che nella sua versione integrale va completato così: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. Pietro gli rispose: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Mt 19,23-29).

La stessa premessa si trova nel racconto parallelo del vangelo di Marco, che fra l’altro è la fonte anche del testo di Matteo (e di quello di Luca): «Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Mc 10,28-30). In Luca poi leggiamo: «Pietro allora disse: “Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito”. Ed egli rispose: “In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Lc 18,28-30).

Quest’insegnamento di Gesù che appartiene alla «triplice tradizione», che è alla base della formazione dei tre Vangeli sinottici, dice in sostanza la stessa cosa. Di fronte alla certezza che solo l’Onnipotenza divina rende possibile la salvezza che è impossibile all’uomo, la sequela totale dei discepoli avrà una ricompensa capace di moltiplicare per cento quanto è stato lasciato, e in aggiunta avrà la vita eterna.

Matteo è il più conciso: parla solo di «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi»; Marco rimane negli stessi termini, precisando però che quest’azione di sequela si compie «per causa mia e per causa del Vangelo». Luca parla addirittura di «casa o moglie o fratelli o genitori o figli», e specifica: «per il regno di Dio».

Per completare il quadro, nei primi tre Vangeli troviamo anche un’altra versione dello stesso detto di Gesù. Nei soli Matteo e Luca leggiamo: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38); «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami [letteralmente «non odia»] suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Questo solo per accennare ad altri insegnamenti relativi al portare la croce: non c’è spazio per affrontarli in questa occasione.

Tornando al problema posto dal lettore, si va oltre la singola questione dei figli: seguire il Cristo, con tutto quello che implica, comporta un nuovo modo di essere in cui ognuna delle relazioni più sacre, da quella filiale a quelle sponsale e genitoriale.
Gesù non comanda nessuna fuga ma semmai un amore ancora più grande di quelli umani, perfino riguardo la propria stessa vita, che pure sono parte della stessa creazione. San Benedetto nella sua Regola dirà: «Nulla anteporre all’amore di Cristo» (Regola 4,21).

Il discepolo del Vangelo sa quindi inquadrare ogni cosa in un ordine più grande: dovunque sia chiamato a vivere la sua adesione a Cristo, qualunque sia lo stato di vita del discepolo del Vangelo, il Cristo è avanti a tutto. Non si tratta perciò di lasciare ma di trovare, «per causa del Cristo e per causa del Vangelo» (Marco), o «per il regno di Dio» (Luca). Chi è capace di lasciare «riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Matteo).

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