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Andrea Bocelli si racconta tra fede e vizio

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 13/12/16

Intervistato dal Corriere della Sera il tenore famoso in tutto il mondo si confessa e spiega come vede il mondo e come abbia toccato con mano il peccato

In una lunga intervista al Corriere della Sera rilasciata ad Aldo Cazzullo, il tenore Andrea Bocelli si racconta, spiegando il suo rapporto con la propria cecità, vissuta senza recriminazioni e piena di ricordi dei primi 12 anni “alla luce”, del mondo contadino dal quale proviene. Oltre a questo due i temi molto intimi di cui ha parlato: la fede e il dramma del “vizio”. Sulla prima ha spiegato la sua assoluta certezza in un Dio creatore e amorevole:

Lei ha fede? “Sì. Trovo palese che il creato sia un sistema intelligente. Una persona ragionevole non può affidare la vita al caso. Se vedo un palazzo, sono certo che qualcuno l’ha fatto. A maggior ragione, l’universo non può essere frutto del caso”. Crede anche nell’immortalità nell’anima? “Al cento per cento. Quando mio padre è morto, guardandolo ho avuto fortissima la sensazione che nel suo corpo non fosse rimasto neppure un atomo di lui. Noi siamo ciò che è dentro questa scatola. Dopo andiamo da qualche altra parte”. Non ha mai dubbi? “Qualche problema me lo crea il dolore inutile e ingiusto. La sofferenza degli innocenti. Le malattie dei bambini” Che risposta si è dato? “E’ un’idea geniale del maligno, per costringerci a dubitare dell’esistenza di Dio”. E la sua sofferenza? “La cecità non mi ha scosso più di tanto. Mi sono sempre sentito in debito con il mondo. Fortunato. Felice”.

Poi molto interessante e rivelatoria la sua esperienza di crisi dopo la separazione con la prima moglie e il periodo che lui stesso definisce come un “gorgo di vizio” e una “droga”:

E’ vero che da ragazzo fantasticava di amori impossibili? “Tutti gli amori erano impossibili: all’inizio nessuna ragazza mi voleva. Fin dall’adolescenza però la fidanzata l’ho sempre avuta”. Come mai è finito il suo primo matrimonio? “Per mancanza d’amore. Colpa mia, che ero più maturo: lei aveva solo 17 anni, io già 30. Ma fatico a considerare un errore l’unione da cui sono nati due figli meravigliosi come Amos e Matteo”. Tra la separazione e l’incontro con sua moglie Veronica lei è stato, parole sue, un “brutale libertino”. “Brutale no: ho sempre tentato di lasciare un buon ricordo di me, anche se a volte temo di aver recato dolore. La penso come Nietzsche: l’uomo ama il gioco e il pericolo; e la donna è la giocatrice più pericolosa”. Quali donne sceglieva? “Quelle che mi piacevano. Che mi suscitavano qualcosa. Che mi davano l’impressione di riempire la parte mancante di me”. Da cosa lo capiva? “Il comportamento vuol dire molto. L’atteggiamento, il modo di parlare. Mi sono sempre piaciute le donne di forte femminilità. Ma neppure i miei traguardi affettivi mi guarivano dall’inquietudine. Il libertinaggio diventa una droga. Tutte le sere hai bisogno di riuscire nel tuo obiettivo. La sera che non ci riesci, stai male”. Le capitava spesso? “No. Il successo rende tutto più facile. Ma alla fine ti ritrovi con un pugno di mosche. E ti senti affondare nel gorgo del vizio. A un certo momento ci sono andato molto vicino”. Di Castro dicono che abbia avuto 35 mila donne… “Io invece ho incontrato Veronica che mi ha stroncato la carriera. Ci siamo sposati, e ci amiamo moltissimo. Al mattino a volte si sveglia con una poesia che le ho scritto di notte”.

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