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Sono diventata “amica” dei miei attacchi di panico, e ho ripreso il controllo sulla mia vita

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Jon Flobrant | Unsplash

STEPHANIE YOUNG - pubblicato il 24/01/17

La mia psiche ha ricevuto ben tre epifanie, che hanno cambiato le regole del gioco

A 12 anni ho avuto il mio primo attacco di panico. Mani sudate, cuore che batteva all’impazzata, tremore e la sensazione che tutto intorno a me fosse svanendo; non avevo idea di quello che stava accadendo a me. Sapevo soltanto che non riuscivo a controllare il mio corpo. È stato terrore allo stato puro. Mi feci visitare da alcuni medici, che mi sottoposero ad una serie di test e mi fecero andare a casa. Sebbene fossi sollevata perché non furono riscontrati problemi di salute, vivevo con la paura che sarebbe successo di nuovo. E succedette. Più e più volte.

Man mano che sono diventata più matura, ho cominciato a mettere insieme i pezzi del puzzle. Questi “eventi” non erano nati dal nulla, c’era una causa scatenante. Ogni incidente è stato preceduto da una preoccupazione o da una paura intensa. Un dolore addominale per me significava appendicite, un viaggio aereo mi faceva presagire una collisione imminente, e così via.

Nervosa per natura fin da bambina, conoscevo bene la paura e il panico. Ma con questi casi stavo raggiungendo un livello completamente nuovo.

Ho passato degli anni vivendo nella paura che tutto ciò potesse ripetersi. Avevo paura di rimanere a dormire a casa di amici, di fare un’escursione o, in generale, di correre il rischio di allontanarmi troppo da casa. Smisi di prendere l’aereo, di utilizzare l’ascensore e di viaggiare per lavoro.

Nel corso del tempo, uno psichiatra ha confermato ciò che io avevo già intuito: soffrivo di disturbi d’ansia e di attacchi di panico. Mi prescrisse due tipi di farmaci e mi fece seguire da un terapeuta cognitivo-comportamentale.

Sebbene la terapia conversazionale e i farmaci mi abbiano aiutato in vari aspetti della mia vita, non ebbero particolare successo in merito all’intensità e alla frequenza dei miei attacchi di panico; o almeno non nella direzione prevista.

È anzi successo l’esatto contrario; le pressioni della vita mi hanno spinto verso un punto in cui tutto iniziò a peggiorare, e continuavo a percorrere la mia spirale fuori controllo.

A volte ho avuto paura di uscire di casa e anche il solo pensiero mi faceva rabbrividire. Finivo per farmi coraggio e poi uscire, ma in generale non stavo bene, nella mia situazione di madre di due figli che lavora a tempo pieno. Mi paralizzava la paura di avere un attacco di panico al di fuori dei confini sicuri di casa mia.

Un sabato mattina i miei figli mi chiesero di portarli al parco. Sopraffatta dalla paura e dall’ansia, dissi di no e mi giustificai dicendo di avere mal di pancia. Li misi di fronte alla televisione nella speranza che questo li avrebbe soddisfatti.

Eccomi lì, seduta sul divano, a fissare i miei figli guardare la TV. Cosa stavo facendo? Cosa ero diventata? I miei due figli, pieni di energia, volevano soltanto trascorrere un bel sabato mattina nel parco insieme alla madre. E io avevo risposto proprio così? Il tutto perché temevo di avere un attacco di panico?

Quel giorno decisi di smettere di vivere nella paura. Quel giorno entrai in azione.

Decisi di imparare tutto quello che potevo sui disturbi d’ansia e sugli attacchi di panico. Pensavo che forse, se avessi sviscerato la cosa, avrei potuto capire meglio quello che mi stava succedendo.


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Quanto più imparai a conoscere l’anatomia dei disturbi d’ansia e a comprendere i motivi dei miei attacchi di panico, e più avvertivo in me un cambiamento interiore. Una serie di epifanie cambiò la mia prospettiva al problema. Ecco i miei punti di svolta:

Primo punto di svolta: I miei attacchi di panico cercano di aiutarmi

Sì, avete letto bene. È qualcosa che viene definito nella risposta di lotta o di fuga: un processo interno che prepara il nostro corpo alla percezione di una minaccia. In altre parole, è il modo in cui il nostro cervello ci aiuta in quanto responsabile della nostra sicurezza.

Una volta che ho iniziato a interiorizzare questa idea, ho capito che il mio panico non era l’avversario malvagio che per così tanto tempo pensavo fosse. Non era affatto un mostro. Non stava cercando di uccidermi. Era semplicemente un meccanismo di protezione del mio cervello, che crede di aiutarmi agendo in questo modo.

“Il disturbo di panico è in realtà una reazione naturale del corpo che avviene fuori dal contesto”, spiega lo psicologo Thomas A. Richards del Social Anxiety Institute.

Secondo punto di svolta: È parte di ciò che sono e la accetto

Ho passato molti anni terrorizzata da questa bestia enorme e malvagia, cercando di combatterla. Ogni volta che avevo un attacco promisi che non avrei mai permesso che accadesse di nuovo.

“Questa è l’ultima volta! Adesso mi rialzo, con tutte le mie forze!”

Poi, inevitabilmente, succedeva di nuovo. E i sentimenti di fallimento, delusione e sconfitta avevano la meglio.

Come potevo permettere di soccombere un’altra volta?

Ma in questo processo, imparando sempre di più su me stessa, riuscii a riconoscere che questo approccio così dispregiativo verso di me era qualcosa di tremendamente distruttivo e controproducente. Così ho scelto una nuova prospettiva: invece di investire tantissima energia emotiva cercando di evitare il panico, ho deciso di abbassare la guardia e di accettarlo come parte di ciò che costituisce il mio essere. Ho deciso di essere padrona di quella parte di me e di amarmi nonostante essa. E così ho “fatto amicizia” con il mio disturbo.

Accettando questa “cosa” come un semplice pezzo del grande puzzle che sono io, sono più in pace con me stessa.

Smettendo di combattere questa lotta inutile contro qualcosa che viveva dentro di me, la pressione è sparita.

Terzo punto di svolta: Non sono davvero in pericolo

Anche se un attacco di panico ha il potere di convincere che si è in grave pericolo, il suo potere finisce lì. “Durante un attacco di panico, il corpo sperimenta gli stessi processi fisici che avrebbe se tu fossi davvero in pericolo”, sostiene Richards. “La differenza, naturalmente, è che anche se ci si sente in pericolo, in realtà non lo si è”.

Anche se i sentimenti di pericolo sono reali, non vi è alcuna vera minaccia. Questa prospettiva è stata una grande scoperta per me, perché da quel momento potevo permettere che tutto accadesse senza avere paura di morire. Questo pensiero continua ad avere, in me, un effetto calmante: è una cosa in meno di cui preoccuparmi durante l’attacco di panico.

Ora, quando sento di essere vicino ad un attacco di panico, mi limito ad attenderlo. Dico a me stessa che sto bene con ciò che sento, che accada pure. Permetto che accada e ricordo a me stessa che non si tratta di nulla più di un innocuo meccanismo di difesa. E faccio un respiro.

Non sono arrabbiata con me stessa. Non metto pressione su me stessa per reprimere questa cosa. Mi limito a lasciarla lì dov’è.

Se riesco tenere a bada il panico, festeggio il mio successo e mi do una pacca sulla spalla per il lavoro ben fatto. Se non ci riesco mi ricompongo, minimizzo la cosa, pratico un po’ di amor proprio e volto pagina.

Non mi autocommisero né traggo piacere nel lamentarmi o nel vergognarmi; neanche guardo al futuro con timore. Mi limito a voltare pagina e ad andare avanti. E ne sono lieto, perché non importa cosa succede, sto facendo dei progressi.


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Continuo a prendere le mie medicine e sono ancora in terapia. Sarò sempre incline ad avere attacchi di panico, sono e sarò sempre un processo in evoluzione.

Ma demistificando la mia percezione di questa cosa che mi ha afflitto per la maggior parte della mia vita, accettandola per quello che è e amando me stessa a prescindere da essa, sono riuscita a strappare gran parte del suo potere e riprendere il controllo sulla mia vita. Anche se ognuno ha dei meccanismi di sopravvivenza diversi, questa è la formula che ho scoperto funzionare meglio per me.

Adesso, quando i miei figli chiedono la mia attenzione, posso offrirla liberamente, completamente e senza paura.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]

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