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Ex guerrigliera delle Farc: “Avevo 13 anni. A 15 mi hanno dato un’arma”

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AFP PHOTO / LUIS ACOSTA

Ary Waldir Ramos Díaz - Aleteia Spagnolo - pubblicato il 07/02/17

I salesiani aiutano gli ex guerriglieri a ricostruirsi la vita e a tornare dalle famiglie

“Avevo 13 anni. A 15 mi hanno dato un’arma. (…) C’erano molti bambini. Una notte gli elicotteri dell’esercito ci hanno bombardati. In pochi siamo usciti vivi. Il mio compagno è morto”, ha raccontato Catalina (nome di fantasia), 19 anni, che si è appena diplomata in Arti Grafiche alla Ciudad Don Bosco di Medellín (Colombia). Catalina si è svincolata dalla guerriglia colombiana, le FARC, ed è stata aiutata dai salesiani a ricostruirsi una vita e a riabbracciare la propria famiglia.

52 anni di conflitto armato in Colombia tra le FARC, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), i paramilitari e lo Stato hanno provocato otto milioni di vittime. In questi decenni, migliaia di bambini e bambine sono stati costretti dai gruppi armati a prendere parte alla guerra.

Manuel, 16 anni, è entrato nel 2013 nella guerriglia delle FARC insieme al fratello. “Mentre eravamo lì lo hanno ucciso. Lui era tutto per me, era come mio padre e mia madre. Non aveva senso rimanere nella guerriglia”.

I salesiani, che seguono la spiritualità di Don Bosco, in Colombia hanno accolto Catalina e Manuel, protagonisti del documentario diretto da Raúl de la Fuente che ripercorre in 21 minuti le paure, i sogni e le speranze di questi ragazzi ed è stato presentato alla stampa a Roma in un incontro organizzato dall’Associazione ISCOM.

Oggi, a 19 anni, Manuel descrive un’infanzia rubata unita a un’arma, la foresta come casa e il battaglione come unica famiglia. Svincolarsi dalle FARC, ha affermato, è come “lottare per arrivare a cose piccole per poi arrivare a cose grandi. Ero analfabeta, ora sto studiando”. Manuel non può tornare dalla famiglia. La campagna in cui vive è una “zona rossa” di conflitto.

Purtroppo il dramma dei bambini soldato non si verifica solo in Colombia. L’uso di minori in guerra è infatti una pratica molto diffusa in vari Paesi.

Allontanati dalla famiglia e da una vita normale, i giovani che si sono svincolati dal conflitto vengono accolti nella Ciudad Don Bosco di Medellín dai salesiani, che negli ultimi 14 anni hanno accompagnato oltre 2.300 minori usciti dal conflitto e altri 1.300 nella città di Cali.

James Areiza, educatore e responsabile dei programmi per la protezione dell’infanzia alla Ciudad Don Bosco, ha spiegato che i giovani collegati ai gruppi armati sono manodopera economica, manipolabile e leale, perché temono rappresaglie contro le famiglie. Si crede che in Colombia ci siano ancora tra gli 8.000 e i 14.000 minori utilizzati come soldati, molti di loro contadini di zone lontane.

Le FARC dicono di avere nelle loro file 75 minori, che sono stati consegnati ai servizi sociali in Colombia come parte del processo. 11 di loro sono stati assistiti dai salesiani.

Il programma Construyendo sueños (Costruendo sogni) li accoglie, li recupera e li educa aiutandoli a superare i propri traumi grazie alla pedagogia della fiducia, trasformando le loro paure in voglia di imparare e insegnando loro un mestiere perché possano reinserirsi nella società e reincontrarsi con le famiglie, ha spiegato Areiza.

La legislazione colombiana considera questi bambini e giovani svincolati dal conflitto armato perché ci sia una protezione legale per loro.

In questo senso, il cessate il fuoco in Colombia è necessario perché i colombiani si riconcilino e ci sia un futuro per le vittime dirette del conflitto – i bambini e i giovani carne da cannone nel confronto. “È un momento storico. I giovani non saranno vittime della persecuzione”, ha dichiarato il sacerdote Rafael Bejarano Rivera, direttore della Ciudad Don Bosco di Medellín.

Padre Bejarano Rivera sostiene che la Chiesa non si è divisa nel referendum e che la maggior parte dei pastori ha adottato un atteggiamento neutrale, lasciando i cittadini liberi di scegliere. Lamenta tuttavia che ci sia stata “una manipolazione da parte dei gruppi protestanti” riguardo al voto.

Catalina ha raccontato il dolore che ha provato quando ha saputo della vittoria del “No” al referendum. “Penso che ci debba essere prima una pace interiore per poterla poi offrire. Bisogna pensare agli altri prima che a noi stessi”.

Anche Manuel è rimasto deluso dal risultato del voto popolare al referendum, perché pensava che fosse un’opportunità e una speranza per riabbracciare la propria famiglia. “Bisognerà aspettare la prossima (opportunità di pace). Pensavo che potessimo tornare nelle nostre terre, riorganizzare le cose nelle campagne, ma non si può andare molto più in là per via della violenza”.

Per padre Bejarano Rivera, la domanda del referendum riguardava l’accordo, non i processi e la pace. Ciò vuol dire che bisogna ripensare l’accordo, che ora è stato approvato dal Congresso nazionale. Dal 1° dicembre è iniziata l’implementazione del processo con le FARC. Si guarda anche con speranza al futuro del dialogo aperto con la guerriglia dell’ELN, secondo gruppo sovversivo armato del Paese.

Aleteia ha parlato con il sacerdote del post-conflitto e della costruzione della pace attraverso opere concrete come quelle dei salesiani con i giovani svincolati dai gruppi armati in Colombia.

Lei ha parlato della posizione neutrale della Chiesa in occasione del referendum. Ritiene che noi cattolici siamo stati “tiepidi” nel momento chiave di motivare le posizioni per costruire la pace, nonostante la domanda ambigua racchiusa in un “Sì” o un “No”?

Noi cattolici in Colombia dobbiamo impegnarci molto di più, in modo radicale, aperto a livello di parole e di fatti, per la conversione dei cuori. Ciò vuol dire assumere posizioni politiche che mostrino l’etica cristiana che viviamo. Non posso dire che come cristiani dobbiamo impegnarci in un unico partito politico, non posso dire che come cattolici dobbiamo mettere da parte le esperienze diverse che ogni persona ha avuto di fronte al conflitto.

Come cattolico, però, posso dire che siamo tutti invitati a vivere il perdono e la speranza, una speranza che va costruita in modo molto più collettivo, e a portare avanti la missione di costruire una Nazione migliore. In pace, allo stile di Cristo.

In 52 anni di guerra, ciascuno ha le proprie responsabilità. Ci sono settori che denunciano come la Chiesa cattolica abbia fallito a livello di leadership spirituale al momento di denunciare l’emarginazione, lo sfruttamento, la violenza contro certi settori vulnerabili della nostra società…

La leadership esiste. In Colombia la Chiesa cattolica ha numerose opere rappresentate in moltissimi carismi, e abbiamo grandi leader ecclesiali che hanno saputo leggere il contesto sociale della sofferenza delle persone e combinarlo con il pensiero teologico.

Penso che sia ingiusto che oggi in Colombia si stia insinuando un falso clericalismo. A volte si parla del peccato della Chiesa in America Latina, del peccato in Colombia… Non si può raccontare la storia della Colombia senza parlare della Chiesa cattolica. Credo che sia il momento di sottolineare maggiormente il gigantesco apporto della Chiesa cattolica alla costruzione della pace e allo sviluppo del Paese.

Alto el fuego

Documentario

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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