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Beato Michele Rua, o della gioia di guardare i figli con occhi altrui

MICHELE RUA

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Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 06/04/18

Oggi la Chiesa festeggia questo Beato, il successore di Don Bosco alla guida dell'Opera Salesiana, e l'esempio di come i piccoli abbiano un compito grande

Ogni giorno siamo accompagnati da tantissimi santi e beati, spesso io me lo dimentico. Oggi ci ho fatto caso, guardando il calendario, perché Michele è un nome che non mi è indifferente (è quello del mio primogenito). Il Beato Michele Rua si festeggia oggi, 6 aprile. Chi fu? Il successore di Don Bosco nel guidare l’opera dei Salesiani.

Allora senza indugio ho bussato alla porta (cioè ho scritto un messaggio) ai miei carissimi amici Salesiani, un carisma a cui sono affezionata, direi anzi di cui sono assetata. Don Elio Cesari, che è Direttore delle Opere Sociali Bosco di Sesto San Giovanni (… e ha a che fare, se non sbaglio, con circa 1500 ragazzi) mi ha risposto con il tempo di reazione di un centometrista olimpionico. E con la mira di un arciere provetto!

L’incontro con Don Bosco

Provo a mettere a fuoco le sue dritte. Partiamo dal numero 9: ultimo di nove figli, Michele Rua resta orfano a 9 anni. In questa triste congiunzione incontra Don Bosco. Questo è già tanto: non si può restare senza padri. La vita può separarci dal nostro padre naturale, ma ci regala altri padri lungo la strada. Orfani adottati, in mille modi possibili; ecco come si sentono tanti di noi. E per chi ancora è solo orfano, azzardo a dire che spalanchi gli occhi in tutte le direzioni perché Dio non lascia nessuno senza compagnia.




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L’incontro di Don Bosco con Michele Rua è tutto sintetizzato in un episodio:

In una mattina del 1847, san Giovanni Bosco distribuisce medaglie ai bambini accorsi sul suo passaggio. Un ragazzo d’una decina d’anni, dall’aria timida, gli si para davanti e tende la mano. «Ah, sei tu, Michele! Cosa vuoi? – Una medaglia… – Una medaglia? No. Ancor meglio. – E cosa allora? – Tieni, è per te!» E così dicendo, don Bosco tende la mano sinistra aperta, ma vuota, e, con l’altra, tenuta perpendicolarmente, fa il gesto di tagliarla in due, per offrirgliene la metà. «Andiamo! Prendi! Prendi, ti dico!» Prendere, ma cosa? La mano rimane vuota. Che cosa vuol dire, si chiede il ragazzo. Parecchi anni dopo, don Bosco chiarirà l’enigma: «Caro Michele, tu ed io, nella vita, divideremo sempre tutto: dolori, preoccupazioni, responsabilità, gioie ed il resto, tutto il resto, tutto ci sarà comune».

L’audace vocazione di un timido

Lo sguardo di Don Bosco su di lui fu profetico, ma è tuttora educativo per noi genitori. Tanti ragazzi e bambini si affollavano intorno al sacerdote; Michele Rua stava dietro rispetto a loro e sorrideva da lontano. Eppure è in lui, in quel genere di persona che c’è ma non si mette in mostra, che il Santo di Torino vede l’ipotesi di un compito grande.

Frequento quotidianamente corridoi scolastici, spogliatoi di associazioni sportive, feste di compleanno. Quanti genitori, e non escludo me stessa, sono sempre lì a far finta di niente, eppure premono per l’eccellenza della propria prole. Noi conosciamo la bellezza unica, irripetibile, dei nostri bambini e ci prende questa smania che essa diventi tutt’uno col primeggiare, con gli occhi del mondo intero stupiti del prodigio uscito dalla nostra pancia.
E tutti quelli che stanno dietro, chi li guarda? Chi li guarda con occhio innamorato proprio perché stanno dietro? Chi intravede un compito grande nella trazione posteriore, e non solo nell’attaccante col numero 10?

Nessuno vuole essere Robin – canta Cesare Cremonini, e siamo tutti più soli. Sotto sotto, crediamo che il ruolo del gregario sia bellissimo, se lo fa qualcun altro.
Ma c’è un altro aspetto. Come genitori siamo capaci di accogliere il giudizio di un altro maestro capace di leggere nel cuore di nostro figlio meglio di noi? Ecco un altro episodio significativo:

Un giorno del 1850, egli (Don Bosco) chiede a Michele: «Cosa pensi di fare l’anno venturo?» – «Farmi assumere alla Manifattura per aiutare la mamma che si è tanto sacrificata per noi». – «Non ti piacerebbe continuare gli studi per diventare sacerdote; che ne diresti?» – «Direi di sì, subito. Ma la mamma… chissà?» – «Prova a parlargliene: mi dirai quel che ne pensa». La risposta di quella madre cristiana è chiara: «Vederti sacerdote, sarebbe la più grande gioia della mia vita… Di’ a don Bosco che sono d’accordo per quest’anno, a titolo di prova».

Lasciarsi educare ad educare

La mamma di Michele Rua si è lasciata guidare da un altro per accompagnare suo figlio verso la propria vocazione. Penso al mio orgoglio e sorrido amaramente. Io? So ben io come è fatto e cosa è meglio per i miei figli! Io li ho partoriti, accuditi, visti e seguiti ogni benedetto giorno! Chiunque altro può avere solo un’idea approssimativa, ma io, io, io!




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Ecco. Non è un autogol lasciarsi educare a educare i figli; forse la vista si rischiara, se guardo ciò che credo di conoscere attraverso gli occhi di un maestro che guarda in alto, in fondo, al Tutto. In una breve veglia di umiltà mi fermo a chiedere che ci siano accanto a me presenze capaci di aiutarmi ad aiutare i miei tre giovanotti a incamminarsi verso la loro vocazione, non verso un lavoro sicuro. Sparo più in alto. Deve esserci per ciascuno un percorso di conoscenza di sé che sia anche un dono per il mondo, piccolo quanto basta e necessario senz’altro.

Fedele continuatore e grande innovatore: il genio di chi segue davvero

La storia di Don Michele Rua, che fu beatificato nel 1972 da Paolo VI, diventò quello di un uomo solerte tra le cui mani l’Opera Salesiana crebbe vertiginosamente; quel ragazzino che stava dietro a tutti è stato capace di portare avanti una presenza di bene dilagante: missionario instancabile, fedele interprete del sistema educativo preventivo; percorrendo migliaia di chilometri visitò le case della congregazione sparse per il mondo, coordinandole come una sola grande famiglia; grande innovatore in campo educativo: oltre alle scuole, in cui introdusse corsi professionali, organizzò ostelli e circoli sociali.
Da madre, oggi ho messo nel cassetto della mia memoria un amico beato in più alla cui porta posso bussare, direi fastidiosamente spesso.

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