I nostri sogni idilliaci sono fatti di prati fioriti e boschi incontaminati, ma poi ci danno fastidio il fango e gli insetti. Non è forse meglio guardare con stupore e meraviglia il grigiore delle nostre città?
di Edoardo Dantonia
Ho visto un’immagine, a prima vista suggestiva: una donna scendeva da un marciapiede, per andare a toccare coi piedi nudi un soffice manto erboso. La didascalia recitava “fuga dalla realtà”. Il marciapiede, se non ho mal interpretato quella fotografia, rappresenterebbe questa realtà dura, fatta di cemento e acciaio, mentre l’erba sarebbe il simbolo di una natura incontaminata, un locus amoenus in cui rifugiarsi, una parentesi bucolica che dovrebbe salvarci dalla freddezza e dal frastuono della città.
In questa filosofia penso ci sia un grosso errore di prospettiva, dovuto a un’idea piuttosto moderna di natura e campagna. Nell’immaginario odierno la natura è un luogo di pace e serenità, una fuga temporanea dalla realtà cupa e grigia della città, del lavoro e via dicendo. Dove la città è la prigionia, il bosco è la libertà; le strade per l’inferno sono asfaltate, quelle per il paradiso sterrate ed erbose. Ma per chi nei boschi ci vive?
Per certi versi è vero, per un uomo di città una passeggiata in montagna può costituire un’ottima evasione. Ma nessuno si è mai domandato come dev’essere per un uomo di montagna? Se un bosco è la fuga dalla realtà della città, per chi vive in un bosco quale può mai essere la fuga? Non può essere la città, coi suoi palazzi e il rumore dei clacson e le luci delle insegne, fonte di meraviglia per un contadino o un pastore che vivono in mezzo ad alberi, cascine e bestie da soma?