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Buttiglione racconta al Meeting di Rimini il “Bergoglio wojtyłano”

Papa João Paulo II e Cardeal Bergoglio

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 20/08/18

Seduto accanto a Massimo Borghesi, il noto moralista ha condiviso il ricordo delle proprie esperienze personali con “padre Bergoglio”, all'inizio degli anni Ottanta, quando il gesuita gestiva il seminario di san Miguel ed era infiammato dalla propulsione del pontificato polacco all'esperienza peculiare dei popoli sudamericani. Ne viene alla luce un'importante lezione di stile ecclesiale, valida per tutti i tempi.

Oggi a Rimini Rocco Buttiglione è intervenuto sul tema “Cinque anni di Pontificato. Alla scoperta del pensiero di Bergoglio”. La sua relazione, anticipata in nuce su Il Sussidiario, verteva sui contatti avuti col giovane padre Bergoglio negli anni ’80, quando Buttiglione si recava in Sudamerica con don Francesco Ricci per incontrare quei teologi che avevano preso sul serio l’invito di Giovanni Paolo II a riformare la teologia della liberazione. Ovvero a fondarne un’altra, pienamente e veramente cristiana.




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L’approccio di Buttiglione unisce al pregio della testimonianza personale anche quello del memorandum storico, in quanto permette a degli occidentali atlantico-centrici di ricordare che il Papa Polacco non condannò mai in radice la teologia della liberazione. Ricorda infatti il filosofo moralista:

Della teologia della liberazione a Giovanni Paolo II, invece, non piaceva l’uso del marxismo come strumento analitico per comprendere la storia. Non è che fosse anticomunista. Semplicemente era polacco, il comunismo lo aveva già vissuto ed aveva visto che non funzionava. Lui pensava che per parlare all’anima delle nazioni bisognasse partire non dall’economia ma dalla autocoscienza, cioè dalla cultura.

Buttiglione ha scelto di dedicare i più recenti sforzi della sua viva intelligenza ad illustrare la continuità nella riforma costante fra gli ultimi pontificati: ricordiamo il libro esplosivo scritto a quattro mani con il cardinale Gerhard Müller, Risposte (amichevoli) ai critici di “Amoris Lætitia”; accanto a lui gli organizzatori del Meeting hanno messo a sedere Massimo Borghesi, che non troppo tempo fa diede alle stampe Unabiografia intellettuale di Jorge Mario Bergoglio. Entrambi hanno le carte in regola per leggere pubblicamente il lustro bergogliano ormai alle nostre spalle: si potranno ancora eccepire punti, qua e là, argomentando, ma innegabilmente i due autori meritano di essere ascoltati con la massima attenzione.




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E nel 2018, che oltre a essere il cinquantesimo del ’68 è pure il settantesimo del ’48, l’allocuzione di Buttiglione al Meeting mi fa pensare allo scacchiere geopolitico in cui l’Italia proprio settant’anni fa prese posizione. Papa Pacelli, che della storia aveva il fiuto, avvertiva grave la solennità dell’ora, al punto che perfino nel messaggio per la benedizione Urbi et orbi pose un richiamo a “votare bene” il 18 e 19 aprile seguenti. Quasi un mese prima di quella data cruciale Pio XII esclamava dal loggione di San Pietro:

Voi, diletti figli e figlie, ben comprendete che cosa un tale bivio significa e contiene in sé per Roma, per l’Italia, per il mondo.

Nella vostra coscienza, destatasi a tale piena consapevolezza della sua responsabilità, non vi è posto per una cieca credulità verso coloro, che dapprima abbondano in affermazioni di rispetto alla religione, ma poi, pur troppo, si svelano negatori di ciò che vi è di più sacro.

Forse non si è riflettuto molto, in questa prima metà dell’anniversario, su cosa avrebbe potuto comportare la vittoria della pars che proponeva l’annessione dell’Italia al blocco sovietico e l’adozione integrale del socialismo storico. Ci sarebbe forse stato un Piano Chruščëv in luogo del Piano Marshall e l’Italia sarebbe stata comunque ricostruita, ma tutto il sistema di riferimento culturale, ancora prima che geopolitico e finanziario, sarebbe stato polarizzato dal blocco dell’Est: ciò significa che difficilmente oggi andremmo al cinema a vedere film hollywoodiani, nelle scuole studieremmo il russo, più che l’inglese, e questa preparazione ci invoglierebbe a viaggiare ad Est invece che ad Ovest. San Pietroburgo diventerebbe una meta di viaggi di nozze al pari di San Francisco e avvertiremmo molto più impellente il problema dell’espansione economica cinese.

E poi sarebbe crollato, il Muro? Chi può dirlo? Si osserverà che la storia non si può fare a colpi di ipotesi. Giusto, ma proprio questo è il motivo per cui nel 1978 Giovanni Paolo II diceva, anzitutto a sé stesso: «Un Papa slavo, Dio lo ha voluto».

Nella cultura cattolica italiana era invalsa l’idea, germinata proprio in quel 1948, che la proposta cristiana dovesse prosperare proprio nel blocco atlantico e nella cultura economico-finanziaria che vi si sviluppava – diciamo il capitalismo liberista del libero mercato, nel quale gli Stati Uniti danno le carte (anche in forza del debito di guerra) –. Giovanni Paolo II venne appunto a smentire questo assunto semplicistico, a raccogliere il testimone dei Papi sulle res novæ e a tracciare la rotta della Chiesa per il terzo millennio che arrivava:

Nel corso del secolo, inoltre, sulle orme di Leone XIII, i Papi hanno ripreso sistematicamente i temi della dottrina sociale cattolica, trattando delle caratteristiche di un giusto sistema nel campo dei rapporti tra lavoro e capitale. Basti pensare all’Enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, ai numerosi interventi di Pio XII, alla Mater et Magistra e alla Pacem in terris di Giovanni XXIII, alla Populorum progressio e alla Lettera Apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI. Sull’argomento sono ritornato ripetutamente io stesso, dedicando l’Enciclica Laborem exercens in modo specifico all’importanza del lavoro umano, mentre con la Centesimus annus ho inteso ribadire, dopo cento anni, la validità della dottrina della Rerum novarum. Con l’Enciclica Sollicitudo rei socialis avevo precedentemente riproposto in modo sistematico l’intera dottrina sociale della Chiesa sullo sfondo del confronto tra i due blocchi Est-Ovest e del pericolo di una guerra nucleare. I due elementi della dottrina sociale della Chiesa – la tutela della dignità e dei diritti della persona nell’ambito di un giusto rapporto tra lavoro e capitale e la promozione della pace – si sono incontrati in tale testo e si sono fusi insieme. Alla causa della pace intendono inoltre servire gli annuali Messaggi pontifici del 1o gennaio, pubblicati a partire dal 1968, sotto il pontificato di Paolo VI.

Già tre anni prima, nella Centesimus annus, Papa Wojtyła aveva ribadito seccamente che la via della Chiesa non portava a New York più di quanto portasse a Mosca (in Italia qualche politico lo aveva intuito già nei decenni precedenti…):

Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?

La risposta è ovviamente complessa. Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d’impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera». Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.

La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell’affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che si diffonda un’ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all’insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.

Giovanni Paolo II, Centesimus annus 42

L’ultimo paragrafo dovrebbe far riflettere molti “cattolici impegnati” che hanno cercato di coniugare la loro appartenenza religiosa a una scelta politica marcata esattamente da quello che Giovanni Paolo II chiamava fideismo. Buttiglione ha evocato precisamente quello scenario, che oggi il pontificato di Francesco ci offre l’occasione di rivedere da vicino: durante il primo pontificato di un non-europeo, e anzi di un sudamericano, la Conferenza Episcopale Latino Americana (e dei Caraibi) smette di evocare quell’esotico neverland “di Romero” e “dei teologi comunisti”, quel posto in cui “hanno problemi coi narcos” e “sono tutti poveracci”. È invece un posto ben preciso, quantunque collocato “quasi alla fine del mondo”, dove il cristianesimo è presente e ha sviluppato una propria tradizione. Buttiglione ricorda che secondo Giovanni Paolo II la storia della Polonia sarebbe impossibile da scrivere prescindendo dal cristianesimo (sempre perché la storia non si fa coi “se” e coi “ma”).

L’idea infiammò padre Bergoglio, ma non per i motivi da squadristi per cui tanti europei se n’erano invaghiti: non, cioè, semplicemente perché il nostro passato sia impensabile senza il cristianesimo (e dunque il presente deve a diritto conservarne i segni). Il punto è che se “il popolo di Dio” non è una generica espressione equivalente a “il gregge dei fedeli” che ogni parroco si trova a messa la domenica; se invece essa designa piuttosto un deuteragonista della storia della salvezza, allora ogni singola storia nazionale, oltre che quella individuale e famigliare e quella mondiale, assurge in un senso non banale a “luogo teologico”. In questo senso, precisamente, si può e si deve ripensare una teologia della liberazione. Ma a padre Bergoglio il nome pareva bruciato – Buttiglione ricorda che il futuro Papa Francesco preferiva parlare di “teologia del popolo”.

Una delle jatture della storia della Chiesa è che le corti pontificie (oggi virtualmente estese su tutto l’orbe, anche grazie al web) tendono ad assumere in automatico le “mode culturali” del pontificato corrente: così come oggi si fanno convegni sulla misericordia ieri si facevano sulle radici cristiane d’Europa, e l’altro ieri ancora si facevano su Solidarność. Nessuno di questi contenuti ha di per sé qualcosa di negativo, ma l’attitudine modaiola può neutralizzarli tutti: la moda è già da sempre di per sé gemella siamese della morte; nessuna moda offre l’occasione di vivere davvero ciò che pubblicizza. La lezione di Buttiglione su questi primi cinque anni del pontificato bergogliano ricorda invece che la Chiesa vive ripercorrendo e rielaborando le proprie esperienze: questo popolo che non ha imposto un’etnia al di sopra delle altre vive dello “stupore eucaristico” dato dalla manifestazione degli effetti del Vangelo in ogni specifica etnia. Accadde da principio nel confronto fra giudei e greci, è accaduto in lungo e in largo per le pieghe della storia e accade ancora oggi, sempre sfuggendo all’incessante tentazione di identificare i fini e il destino del Regno di Dio (che sono fine e destino dell’uomo) con quelli di un popolo, di un partito, di un governo, di una razza.

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