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Il coniuge può essere la propria “croce”?

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Małgorzata Rybak - pubblicato il 12/11/18

Definire in questo modo il marito o la moglie ha conseguenze notevoli

Quando qualcuno parla del marito o della moglie come se fosse una croce da portare, cerco di ascoltare il cuore del messaggio: il dolore. È un modo per dire “Questo rapporto per me è doloroso”, o “Quello che fa questa persona mi ferisce ed è difficile per me”. Penso però che identificare l’altro con la croce non serva né al rapporto né alla persona che soffre.

Il coniuge può essere una croce?

Definire un coniuge una “croce” ha conseguenze di ampia portata. In primo luogo, identifichiamo la persona del nostro coniuge con il problema che riscontriamo nel nostro rapporto, come a dire “Tu sei il problema”. In questo modo, si cancella il coniuge come persona, lo si mette in una posizione perdente e si mette in discussione la sua possibilità di essere un elemento positivo. Si assegna anche la buona volontà a un’unica parte, il che non è sempre vero.

Capisco che spesso parole come queste vengano usate per descrivere una situazione piena di impotenza, quando si accetta una condizione difficile dalla quale si sente di non potersi (o non doversi) allontanare. Sono sentimenti comprensibili e potrebbero avere un buon motivo, ma penso che nessuno dovrebbe definire il proprio coniuge una “croce” – non perché nel matrimonio non ci sia dolore, ma perché quando questo si verifica dovremmo identificare la sua vera causa e scoprire come possiamo aiutare noi stessi e il nostro rapporto.

Quando il problema è dentro di noi

Nel primo caso, a volte il dolore deriva dalle nostre ferite, dalla nostra immaturità e dalle nostre necessità. A volte il coniuge non può soddisfare queste ultime, pur se importanti e intensamente sentite. Può accadere quando ci aspettiamo che l’altro ci dia il tipo di amore e di cure che non abbiamo ricevuto dai nostri genitori, o se abbiamo bisogno di attenzioni costanti e ci aspettiamo implicitamente che il coniuge ci legga nella mente, o ancora se consideriamo la minima critica una ferita che ci viene inflitta. È colpa dell’altro? No.

Potremmo avere anche un’idea infantile e semplicistica della libertà, irrealistica nel contesto dei doveri della vita familiare. Possiamo sentirci feriti per il fatto che l’altro sia diverso da quello che avevamo immaginato o che volevamo. Se nel nostro matrimonio si verificano difficoltà di questo tipo, dobbiamo rivedere le nostre convinzioni su ciò che costituisce il matrimonio.

Pensare meno alla nostra libertà e alle nostre necessità e riconoscere quelle del coniuge può liberarci dalla schiavitù del nostro egoismo e della percezione eccessivamente soggettiva delle cose. Dobbiamo accettare di più chi è il nostro coniuge. Il nostro atteggiamento non dovrebbe essere del tipo “Sei una croce per me perché non realizzi le mie aspettative”, quanto piuttosto “È bello che tu esista”, “Mi piace come sei” e “Non devi cambiare, ma se vuoi farlo sono pronto a sostenerti in qualsiasi cosa tu abbia bisogno di me”. Per avere le risorse interiori per atteggiamenti di questo tipo dobbiamo innanzitutto imparare a sentire che noi stessi siamo profondamente amati e abbiamo un grande valore. Possiamo aver bisogno di aiuto psicologico per lavorare su queste cose.

Quando il problema è davvero dall’altra parte

Ci sono sicuramente azioni di cui il nostro coniuge può essere colpevole e che sono realmente distruttive per il matrimonio, come dipendenze, violenza o infedeltà, che provocano una sofferenza incommensurabile e sentimenti di impotenza. Ancora una volta, comunque, definire l’altro una croce intensifica l’impotenza e la rassegnazione, quando ciò che è necessario è invece l’azione. Se il problema è serio, si dovrebbe coinvolgere un terapeuta. Se poi ci rendiamo conto che noi o i nostri figli siamo in imminente pericolo di vero danno, è necessario porre dei limiti per difendere la famiglia. A volte si deve assumere una posizione radicale contro i comportamenti inaccettabili. “Non sei sobrio per settimane di seguito, quindi devi andartene”, “Resteremo separati finché non seguirai una terapia in cui affronterai la tua rabbia e le aggressioni fisiche”.

I confini non sono un atto di vendetta, ma mezzi per salvare un rapporto e dargli una possibilità di esistere in termini nuovi.

Dio ci vuole felici

Dio vuole una vita piena e la crescita di chiunque. Visto che rispetta la natura umana, permette – ma non desidera direttamente – la sofferenza di una moglie trascurata per una dipendenza o quella di un marito tradito. Si rende vicino con la sua compassione per aiutare le persone che soffrono in un matrimonio a ripristinare ciò che è stato perduto – sentimenti di speranza, autostima e di possibilità di futuro.

Dio desidera sempre che la persona che ha provocato il dolore prenda, con il suo aiuto, la via della trasformazione e della conversione, e poi pratica e ci invita a praticare il perdono. Ciò non significa l’accettazione del male, ma il riconoscimento del fatto che siamo tutti imperfetti e bisognosi di crescere. Il perdono apre la porta al progresso e alla guarigione del rapporto.

La chiave è riconoscere la situazione o il comportamento, e non la persona, come problema.

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