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Trucchi, vestiti, acconciature: quali sono i criteri per non cadere nella vanagloria?

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Pixabay.com/kaboompics

Toscana Oggi - pubblicato il 24/06/19

Una occasione per chiarire questo aspetto della vita quotidiana di tante donne (e uomini)

Scrivo perché ho qualche dubbio a riguardo questo tema. Mesi fa lessi in un libro che le donne cattoliche non dovrebbero indossare alcun tipo di trucco dato che è una falsificazione dei lineamenti che Dio ci ha donato… Il trucco in sé è peccato di vanità? Se no, vi sono dei criteri da seguire per non cadere nella vanagloria? Questo vale pure sul tingersi i capelli.  Cosa si dice nella Bibbia? Più in generale, per una donna, cosa significa vestirsi in modo modesto?

Romy Cordaro

Risponde Nadia Toschi, docente di Teologia morale all’Istituto superiore di scienze religiose della Toscana.

Ad una prima lettura la questione posta può apparire una questione di altri tempi, di non particolare interesse per il mondo di oggi. Essa tocca, invece, il tema tutt’altro che marginale e irrilevante del culto del corpo nella società contemporanea. È una questione seria perché, oltre all’aspetto strettamente religioso, ha un forte impatto a livello economico, sociale e culturale.

In uno studio pubblicato il 6 febbraio 2019 dal Centro studi Cosmetica Italia, si afferma che il fatturato delle imprese italiane nel settore cosmetico nelle stime di fine 2018 è prossimo a 11.200 milioni di euro (con previsione di espansione per l’anno in corso). Si tratta di una cifra enorme. Senza voler fare inutili moralismi, credo che sia necessario domandarci se questo sia indice di un’opportuna e proporzionata cura del corpo o se invece riveli un’attenzione eccessiva se non patologica allo stesso. I rapporti di settore ci mostrano anche un altro aspetto: che la riflessione non può essere limitata alle donne. La cura estetica del corpo, il ricorso a cosmetici e ritocchi vari non sono appannaggio esclusivo del mondo femminile, ma sempre più riguardano anche quello maschile. Questo fenomeno cresce a grande velocità: il mercato con la sua pubblicità propone (impone?) e gli utenti si adeguano.

Oltre alla questione circa le enormi risorse economiche che il comparto assorbe, c’è anche un aspetto sociale altrettanto rilevante. Noi sperimentiamo continuamente il fatto che il corpo è medium tra noi stessi e il mondo esteriore. Attraverso il corpo noi comunichiamo e ci relazioniamo con gli altri. Il corpo decorato (acconciato, abbigliato, truccato, modificato…) ha un’inevitabile funzione socio-culturale. Oggi assistiamo ad una specie di sopravvalutazione del corpo e della sua funzione sociale. Secondo la cultura nella quale viviamo, noi valiamo (quasi?) tanto quanto il nostro corpo si conforma ai canoni della bellezza del nostro tempo. I giovani in modo particolare vivono questa percezione, moltiplicata a dismisura dai social media. Accade che percepiscano il valore della propria persona in funzione di quanti like ricevono le proprie foto postate sui social. Questa fragilità nella percezione di sé, del proprio valore, attraversa tutta la società e ci rende spesso schiavi di una ricerca di un corpo diverso da quello che siamo. Potremmo ancora continuare a riflettere sulla questione moralmente rilevante della opportunità di certi interventi estetici correttivi, sulla questione della sperimentazione cosmetica che spesso usa gli animali e su altre ancora. Tanti sono gli aspetti moralmente significativi che la domanda porta con sé.

La fede della Chiesa nel Signore Gesù, che noi viviamo e annunciamo, può aiutarci a diventare anche in questo ambito persone umanamente e socialmente mature, che rispettano la vita umana con la sua corporeità e se ne prendono cura, senza tuttavia farne un assoluto? Il Catechismo della Chiesa cattolica sobriamente insegna: «la morale cristiana si oppone ad una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo. A motivo della scelta selettiva che tale concezione opera tra i forti e i deboli, essa può portare alla perversione dei rapporti umani» (CCC 2289).

La fede in Cristo, il Verbo che si è fatto carne, ci insegna ad amare e rispettare il nostro corpo, a prendercene cura con amore. Il nostro corpo non è un peso da sopportare o da mortificare: è dono di Dio, sua opera; è quindi buono, come è buono tutto ciò che viene da Dio. Prenderci cura del nostro corpo implica anche prenderci cura del suo aspetto esteriore che è il modo con il quale ci presentiamo agli altri, ci mettiamo in relazione con gli altri. Attraverso la cura del corpo (in tutti i suoi aspetti) rendiamo grazie a Dio che ci ha creati e manifestiamo il nostro amore per noi stessi e per gli altri.

Nella Bibbia non troviamo trattati sull’uso o meno di gioielli, trucchi, coloranti e artifici vari. Tuttavia, attraverso i racconti della Scrittura e le testimonianze archeologiche possiamo farci un’idea dell’abbondante uso dei cosmetici nella società del tempo. Basti pensare a quanto la Bibbia narra riguardo a Ester, che si sottopose a ben 12 mesi di trattamenti di bellezza per prepararsi all’incontro con il re e al suo possibile ruolo di regina (cfr. Est 2,12).

Nella Scrittura non troviamo proibizioni circa l’uso dei cosmetici o di ornamenti particolari. Ci sono considerazioni e indicazioni di buon senso, consigli per vivere anche questo ambito della vita secondo il progetto di bene che Dio ha preparato per noi. Per esempio, nella prima lettera di Pietro troviamo questa esortazione: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti – ma piuttosto, nel profondo del vostro cuore, un’anima incorruttibile, piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio» (1Pt 3,3-4). Il testo va letto nel suo contesto: non c’è nulla di male nell’indossare collane e gioielli, nell’acconciarsi i capelli o nel vestirsi con cura. Basta che tutto sia fatto con moderazione, in modo che l’attenzione all’aspetto esteriore non diventi così importante da mettere in secondo piano ciò che davvero conta, la vita interiore, che deve essere la prima preoccupazione dei cristiani (donne e uomini). Ciò che è prezioso davanti a Dio non è l’aspetto esteriore, ma la bellezza interiore, incorruttibile, che niente e nessuno potrà toglierci, che non è sottoposta alla decadenza degli anni che passano. Ciò che non passa e che Dio guarda è il cuore, il mondo interiore della persona, il cuore buono, che ama e fa’ il bene, che ci rende «belli» agli occhi di Dio. L’obiettivo del testo petrino non è condannare la cura dell’aspetto esteriore in sé. Il monito è rivolto a chi ostenta la propria posizione sociale e ricchezza, a chi rovescia la gerarchia dei valori, sopravvalutando la bellezza esteriore a scapito di quella interiore. Non si condanna la cura estetica del corpo in sé, ma la cura «fuori misura»: il nostro corpo è dono di Dio, è tempio dello Spirito; dobbiamo averne cura nella giusta misura, con sobrietà, senza cadere nell’ossessione, senza farne un idolo. E non dobbiamo dimenticarci del corpo dei fratelli, soprattutto dei poveri, degli affamati, dei malati. Sono tutti «corpi» che hanno bisogno della nostra cura e del nostro amore.

Come sempre siamo dunque invitati dalla Scrittura e dalla Chiesa a «discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2), ricercando pazientemente con amore ciò che concretamente è conforme alla carità di Cristo, in ogni ambito della nostra vita. Scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La virtù della temperanza dispone ad evitare ogni sorta di eccessi» (CCC 2290). Coltiviamo questa virtù in tutti gli ambiti della nostra vita, anche in quello della cura estetica del corpo. Ne va della nostra realizzazione, della nostra felicità, non quella che passa, ma quella vera e profonda che solo Dio può donarci. Se mettiamo Dio al primo posto nella nostra vita, tutto il resto andrà collocato di conseguenza, con semplicità, rendendo grazie a Dio per le cose belle della vita (anche un trucco più bello o un vestito nuovo) e per quelle più difficili da vivere e accettare, come i limiti del corpo, la sua decadenza, la malattia, in attesa del corpo trasfigurato, incorruttibile, risorto nell’ultimo giorno.

Qui l’articolo pubblicato su Toscana Oggi

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