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Tiziano Ferro: nella lettera al Corriere parla del compagno e del suo Dio “simpatico”

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Paola Belletti - pubblicato il 16/07/19

Certo, se intendiamo un Dio piacione e accomodante allora facciamo bene a distaccarci dalle sue affermazioni. Eppure ha ragione: Dio è il solo in grado di soffrire, sentire con noi e non ci chiede pegno perché ha pagato Lui. Quanto allora soffrirà con i bambini commissionati e strappati alle madri per consegnarli a coppie, etero o omosessuali!

Il fatto è risaputo e fin troppo. Questi fatterelli, di natura privata e intima quando riguardino persone di dichiarata e praticata omosessualità si trovano garantita una copertura mediatica decisamente sproporzionata grazie alla quale, paradosso, veniamo continuamente edotti su quanto la comunità LGBT sia esclusa e reietta e subisca continue limitazioni.

E anche sul fatto che esista, compatta, una vera comunità LGBT (e successive iniziali), mentre non è così. Non tutte le persone che hanno attrazione per lo stesso sesso, che vivono anche in relazioni più o meno stabili, si riconoscono nella tabella di marcia delle istanze presentate continuamente nei titoli di giornali e nei sommari tg. E ovunque, nella pubblicità, nei film, nei libri, nei cartoons… Andrebbe lasciato cadere, questo fatto, nella sfera degli eventi personali e dai più dimenticato. Ma Tiziano si è spinto, come altre volte, a parlare di Dio, di Chiesa, di come sbagli (la Chiesa, Dio pare che se la cavi) e di bambini. Allora non possiamo tacere troppo presto.

Uscito dalla fase “talento emergente” a inizio anni duemila, Ferro si è assestato – e giustamente – nella posizione di brillante cantante e cantautore italiano; oltre a scalare le hit, si è imposto all’opinione pubblica una manciata di anni fa con quello che sembra diventato l’atto di coraggio per eccellenza: ha detto pubblicamente che era gay. Trasgressivo come farsi un tatuaggio.

Il 25 giugno a Los Angeles e il 13 luglio a Sabaudia lui e il compagno Victor hanno celebrato la loro unione civile. Non è un matrimonio, anche se tanti colleghi nell’uso corrente stanno forzando il sinonimo. Non lo è e non può diventarlo, nemmeno se la relazione affettiva ed erotica si complica della presenza di bambini impropriamente chiamati figli.

In altre recenti occasioni parla anche di questo, Tiziano. Bisogna riconoscere che in alcuni passaggi della lettera esclusiva inviata al Corriere per il 19 luglio è davvero apprezzabile. Ma il tutto è alterato da una grave omissione. Manca il dato di realtà ahinoi. Il fatto è che non basta l’amore, nemmeno fosse il più sincero. La realtà oggi viene mortificata dalle possibilità biotecnologiche e dalla brutalità di pratiche come l’utero in affitto ma non manca di venire a chiedere i conti: due uomini non possono generare un figlio e commissionarlo ad altri è un atto di violenza inaudito. Ripeterlo su scala industriale e globale non farà che aumentarne l’orrore.


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Fino a pochi anni fa nessuno conosceva la mia storia. (ci ha fatto recuperare alla grande! Ndr) Solo le chiese, il mio inconscio, i miei quaderni; qualche cuscino, la mia mente e le sue stanze. Solo io, a guardarmi ogni mattina allo specchio, senza apprezzarmi. Per poi ricominciare. Finché ho conosciuto l’amore. Mi ricordo quando, appena ventenne, sfogliavo libri in cui si parlava di omosessualità. Avevo il terrore di ritrovarmi nelle storie raccontate esplicitamente, quando timoroso andavo a cercare quei volumi stipati in un settore piccolissimo nelle librerie del centro di Latina. Guarda caso il settore era sempre «Psicologia», guarda caso ero sempre l’unico. E mentre tutti si affollavano davanti ai tavoli con l’ultimo romanzo di Stephen King o di Paulo Coelho, io stavo là, sceglievo insofferente e impaurito tra i titoli che mi ispiravano di più. Cercando una strada, un suggerimento, la salvezza, o forse solo cose che conoscevo già ma che — viste nero su bianco — forse mi sarebbero sembrate più semplici, meno aliene e alienanti, possibili e comunque appartenenti alla vita di tanti altri esseri umani, oltre che alla mia. (Corriere)

Non posso permettermi di banalizzare né di ironizzare sulle sofferenze che lo hanno tanto afflitto; ritrovarsi con una tendenza tanto forte, non voluta, così intensa da risultare quasi incontrollabile e che ci renda diversi dalla maggioranza delle persone e da quanto la nostra natura proponga, deve essere fonte di dolore profondo. Può essergli costata umiliazioni, solitudine e angoscia. Questo dolore deve suscitare in ciascuno sincera compassione. Ma non può rendere giusto ciò che non lo è.

Tiziano Ferro prosegue parlando dei diritti civili negati, della lotta per ottenerli. E della fede: la sua e quella degli altri. E in questo passaggio dice una cosa che val la pena salvare e che lui stesso dovrebbe realizzare fino in fondo: preghiamo ma non ascoltiamo. Cerchiamo di negoziare con Dio un miracolo per, alla fine, liberarci di Lui. Oh questo quanto spesso è vero! Ma il Signore è paziente e ci vuole salvare, anche a costo di sembrarci antipatico.

Per quanto l’Italia sia un Paese laico, i crocifissi sono appesi ovunque: nelle case, nelle aule dei tribunali e delle scuole, negli ospedali. «Io sono cattolico!» ho sentito dire a tanta gente indignata di fronte alle manifestazioni a sostegno dei diritti degli omosessuali. Il problema è che in questo Paese non crediamo abbastanza in Dio. Preghiamo, ma non ascoltiamo. Aspettiamo il miracolo e negoziamo l’arrivo di una soluzione, in cambio di qualche rinuncia.

La lettera procede sospinta da ondate di non sempre ben dosato pathos; e arriva al passaggio più richiamato nei titoli dei giornali. Quando Tiziano parla della sua fede e dell’immagine che ha di Dio.

I miracoli? Io il mio lo immaginavo sullo sfondo del Monte Circeo, la mia terra, il mio mare. E poi l’amore, solo amore. Il mio è un Dio che ama, che custodisce, che non chiede pegno. È un Dio simpatico.

Il problema non è quel che dice di Dio: peraltro alcune cose sono vere e utili per chi tende ad immaginarsi Dio come un giudice severo e distante; il problema è che la fisionomia di Dio non dipende da come ce lo immaginiamo; il fatto vero è che Dio esiste sul serio ed è altro da noi. E’ un Dio personale, ha dei pensieri – che, guarda caso, non sono i nostri pensieri – e un amore rispetto al quale il nostro è come la polvere sottile che uno swiffer qualunque si porta via.

Il fatto vero, centrale e decisivo, è che Dio è proprio un Dio simpatico nel senso originario del termine, un Dio, il nostro Dio, che in Cristo ha rivelato la propria natura. Soffrendo con noi, soffrendo per noi e al posto nostro. Non chiede pegno perché ha già pagato Lui. Un Signore, dal momento che siamo talmente poveri da non avere moneta nemmeno per la prima rata del mutuo eterno a tasso crescente che ci siamo accollati con i peccati.

Carissimo Tiziano, questo Dio, l’unico vero, si è immerso nella bassezza della nostra decaduta condizione proprio facendosi bambino. Senza scorciatoie, ha attraversato pazientemente tutte le settimane di gravidanza nell’utero di Sua madre, che grazie a questa iniziale simbiosi ha potuto soffrire la passione di Cristo come nessun altro potrà mai fare. Non è stato strappato dal petto di sua mamma per essere dato ad altri; questa è una cosa che non si deve fare. Mai, in nessun caso.

Non lo dice in questa lettera ma lo aveva già annunciato in altre occasioni, anche prima di unirsi civilmente con questo piacente signore. Tiziano vuole un figlio. Lo voleva al punto da pensare di andarselo a procurare in America e di tirarlo su da solo.




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Vorrei rivolgergli un appello sincero: pensa a te stesso da embrione, da nascituro, da neonato. Pensa se qualcuno ti avesse impiantato nel ventre di una donna diversa da quella che ti ha concepito; e pensa se appena uscito dal canale del parto fossi stato tolto e consegnato a due sconosciuti (uomini, donne, coppia uomo donna). Non rabbrividisci al solo pensiero?

Ecco, quel bimbo è l’essere più debole e indifeso che ci sia in terra e in esso Cristo si identifica pressoché totalmente. Fermati, rifletti. Prega e ascolta, chiedi a Dio che si faccia carico dei tuoi desideri, delle tue frustrazioni, che risponda al vuoto che senti e ti lasci aperta qualche ferita come salutare promemoria del nostro essere solo di passaggio.

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