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Pregare è affidarsi, ma soprattutto fidarsi

PRAY

Herlanzer|Shutterstock

don Luigi Maria Epicoco - pubblicato il 02/12/19

La domanda è sempre la stessa: mi starà ascoltando? Esaudirà le mie preghiere? Quando affidiamo le nostre paure e speranze a Lui dobbiamo fare come il centurione, non chiedere segni visibili, ma sapere che Lui agirà, nel modo migliore per noi, dandoci molto più di quello che possiamo domandare a parole.

In quel tempo, entrato Gesù in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava:
«Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente».
Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò».
Ma il centurione riprese: «Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito.
Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: fà questo, ed egli lo fa».
All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: «In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande.
Ora vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli».

Matteo 8,5-11

“Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: «Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente»”

Il gesto di totale altruismo di questo centurione romano è una scuola di immensa umanità. La sua non è preghiera per sé stesso, è preghiera per un suo servo, uno di quelli che la cultura dell’epoca poteva relegare tranquillamente a un oggetto da cambiare, da sostituire senza perdere molto tempo. Eppure invece dall’alto della sua posizione il centurione va a cercare Gesù e lo implora di fare qualcosa per il suo servo. In questa accorata preghiera Gesù si sente toccato nel vivo di quella compassione che attraversa tutto il Vangelo:

“Gesù gli rispose: «Io verrò e lo curerò»”

Potremmo tranquillamente chiudere qui il racconto, pensando che il meglio ormai è stato raggiunto. Ma è proprio a questo punto che il centurione romano imprevedibilmente tira fuori una fede ancora più immensa:

«Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno, va’, ed egli va; e a un altro, vieni, ed egli viene; e al mio servo, fa’ questo, ed egli lo fa»

In pratica sta dicendo a Gesù: non voglio la prova che mi stai esaudendo, io mi fido di te anche senza nessuna prova esterna. Io so che tu hai preso a cuore le mie parole anche se non vedrò nulla di come interverrai. La sua è fede che si fida, non fede che cerca di convincere. Se noi imparassimo a pregare così le nostre preghiere risulterebbero meno disperate. Perché la sensazione terribile che a volte ci prende nella preghiera è quella di domandare senza vedere nessun segno di essere stati ascoltati, accolti, presi in carico. Avere fede significa credere che se siamo amati è impossibile che Dio rimanga indifferente a ciò che è decisivo nella nostra storia. Credere senza conferme. Pregare senza dubitare. Affidarsi senza tentennare.

“In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande”


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