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Da 14 anni in Togo a scavare pozzi, riparare tetti e far nascere bambini

MIRRI, MISSIONE, TOGO

Aviat Onlus | Facebook

Annalisa Teggi - pubblicato il 06/12/19

Diario dei molti viaggi di chi li aiuta a casa loro. Il ginecologo Gianfranco Mirri ci racconta la sua Africa, fatta di missioni concrete in cui ci si spende su tutto, dal rattoppo delle zanzariere all'emergenza di gravidanze difficili e bambini gravemente malnutriti.

Il dottor Gianfranco Mirri è il ginecologo che mi ha seguita in tutte le gravidanze. Molte delle ecografie fatte nel suo studio sono state accompagnate da scuse sorridenti; quando lo schermo del macchinario non faceva perfettamente il suo dovere, lui mi diceva: «Sai, questo strumento ne ha viste di cotte e di crude in Africa». E allora io azzardavo qualche domanda incuriosita, pensando tra me e me che le mie maternità normalissime sarebbero senz’altro state considerate extralusso dalle altre utenti africane di quel medesimo strumento. Cosa ha davvero visto quell’ecografo? Gliel’ho voluto chiedere per bene, prendendomi il tempo di ascoltare una storia iniziata nel 2005 con un dottore che parte per il Togo con un sogno e oggi, insieme allassociazione AVIAT, nel piccolo fa cose enormi come dare un tetto e i banchi ai bambini di una scuola elementare, costruire pozzi, sistemare un refettorio per un orfanotrofio molto povero e assistere nella cura medica di base e specialistica donne e bambini. Ecco il racconto che ho raccolto.

Caro Gianfranco ci tenevo a portare la tua storia anche ai lettori di Aleteia For Her. A che punto della tua vita è arrivata l’ipotesi di andare in Africa?

È arrivata per caso, il mio amico Giuseppe mi disse: “Vado in Africa, vuoi venire con me?”. Era l’anno 2005. Il motivo iniziale poteva essere la curiosità e l’idea di salvare il mondo. Avevo in mente di fare mille cose incredibili, e invece quel mondo mi ha completamente ribaltato. Quello che ho visto è stato tutt’altro da ciò che pensavo. Da allora ci sono andato quasi ogni anno. Perché il Togo? Perché chi mi invitava erano un marito e moglie che da tempo operavano lì. È nata un’associazione che si chiama AVIAT proprio per dare organicità a ciò che già questa coppia faceva.


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Abbiamo realizzato diversi progetti, ad esempio nel 2007 abbiamo fatto una campagna di vaccinazioni contro la febbre gialla, 1600 vaccinazioni in 15 giorni. C’era un’emergenza e lo Stato non si era ancora messo in moto. Noi abbiamo fatto una piccola cosa, l’OMS arrivò dopo e mise a disposizione 5 milioni di dosi. Nel 2009 abbiamo fatto operazioni di cataratta e visitato oltre mille persone per uno screening oculistico. Nello stesso anno ho iniziato un progetto di prevenzione AIDS madre-bambino che funziona così: alle donne in gravidanza viene fatto un test e, se risultano sieropositive, al momento del parto viene somministrato un farmaco a loro e al bambino. Si è visto che questo provoca più facilmente una sieroconversione, cioé il bambino diventa sieronegativo nonostante ci sia di mezzo l’allattamento. Chiaramente i nostri riscontri non hanno un valore scientifico rilevante, ma abbiamo aiutato molte famiglie. Questo protocollo, in seguito e non per merito nostro, è diventato gratuito ed effettivo in tutto lo Stato del Togo. A questi progetti specifici si affianca la nostra presenza più quotidiana di assistenza sanitaria, io come ginecologo seguo le donne incinta con le ecografie. Poi ci sono dentisti, oculisti. In Togo tutta la sanità è a pagamento, quindi offrire un servizio gratuito è qualcosa di enorme per chi vive in povertà.

E che tipo di realtà è il Togo?

È poverissimo, non hanno risorse naturali e c’è un’agricoltura di sussistenza. Manca il discorso della catena del freddo e della conservazione, quindi ciò che si produce si mangia. Il punto nevralgico è sicuramente il porto, che è il più importante del Golfo di Guinea: lì arrivano tutte le merci che vanno in Burkina, in Mali, in Niger. Dal punto di vista politico è stata una dittatura fino al 2005. Da allora è una repubblica presidenziale, con un governo molto forte, tipico di molte zone africane.

Torniamo invece a quel ribaltamento personale di cui parlavi prima. Cosa ti è successo?

Sono arrivato in Africa volendo cambiare il mondo e mi sono reso conto, negli anni, che dovevo invece cambiare io: per costruire qualcosa occorreva che prendessi quel mondo che avevo davanti com’era e che ci lavorassi dall’interno. Io ironizzo sempre dicendo che lo sport nazionale degli africani è la ricerca del pasto quotidiano; ma dietro l’ironia c’è la consapevolezza di questo bisogno da capire: fare un programma a lungo termine non è la misura adeguata per loro.

L’incontro con loro tu l’hai costruito a partire da questo bisogno quotidiano?

Sì, devi partire dal fatto che non puoi fare cento mila progetti. Non bisogna lasciarsi prendere dal buonismo e far cose campate per aria. Anche le campagne mediche basate sulla formula “visito e do farmaci” vanno bene, ma fino a un certo punto. Se incontro un problema devo risolverlo, non basta la visita al paziente. Non posso solo dire a una donna: “Hai una gravidanza extrauterina, devi andare in ospedale”. Lei non ha i soldi per andare in ospedale, quindi muore. A febbraio di quest’anno ero in Togo, ho fatto un’ecografia ed è capitato, appunto, di visitare una donna che aveva una gravidanza extrauterina e lei mi ha detto: “Va bene, adesso vado a casa”. Vai a casa? No. Abbiamo trovato i soldi perché andasse in ospedale.

Ogni progetto non può essere solo parziale: nella mia testa avrei in mente di fare uno screening di pap-test (per la prevenzione del tumore al collo dell’utero) per le donne. Logisticamente è già difficile trovare chi mi legge i vetrini e poi non posso non pensare all’esito di questi esami. Se il test è negativo, bene. Ma se è positivo non posso fermarmi alla comunicazione: “Lei ha un tumore”. Quindi nel progetto generale deve esserci anche un’ipotesi di sostegno alla cura, sia economico sia di conoscenza degli ospedali del territorio perché certi interventi per noi banali là non sono eseguiti dappertutto, anzi. Certo, è bellissimo dire: “Faccio il test dell’AIDS a tutti!”. Ma poi? Ti fermi lì?

Raccontami qualcosa degli incontri che hai fatto.

Quelli che ho più a cuore sono gli incontri con i bambini. A novembre, proprio adesso, abbiamo visitato un bambino di un anno che pesava solo 5 kg con la malaria. Gli abbiamo fatto il test dell’emoglobina e aveva 4, un valore che equivale a essere morto. Ci siano messi all’opera, innazitutto doveva fare una trasfusione. Là non c’è un centro trasfusionale, devi trovare qualcuno col gruppo sanguigno compatibile e poi pagarlo. Il gruppo sanguigno del bimbo non era tra i più comuni da reperire, non è stato facile trovare un donatore. Comunque ci siamo riusciti, abbiamo pagato il sangue e poi, dopo la trasfusione, ci siamo dovuti assicurare che il piccolo potesse mangiare in modo continuativo per prendere peso.


AFRICAN GIRL

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Gli incontri con questi bambini sono indimenticabili. Abbiamo un progetto in corso per aiutare un orfanotrofio di cento bambini; è una struttura molto povera. Ci sono anche orfanotrofi tenuti benissimo, solitamente da suore italiane, in cui c’è un’educatrice ogni due bambini; quello che stiamo aiutando noi non è così e appena arrivi c’è la frotta di bimbi che ti si attaccano addosso. Avevano tutte le zanzariere bucate ed è stato il primo passo da fare, sistemarle. Il tetto di lamiera aveva i buchi; allora i fondi che raccoglieremo durante questo Natale serviranno a costruire un refettorio per loro, dove potranno stare al coperto nella stagione delle piogge.

E che tipo di maternità hai visto?

La gravidanza è un’esperienza vissuta molto in famiglia, si partorisce a casa, cioé nella capanna. È difficile trovare chi ha meno di tre figli. A novembre dell’anno scorso nel fare un’ecografia a una mamma abbiamo scoperto che aveva tre gemelli e lei aveva già altri cinque figli. Era perplessa, anche se per la loro cultura avere dei gemelli è segno di forza e potenza. L’ho rivista a febbraio e purtroppo aveva avuto un parto troppo prematuro, nessuno dei bimbi ce l’ha fatta. Però il dramma della perdita è vissuto come un’eventualità della vita, come una possibilità. Resta il fatto che per loro avere dei figli è la cosa più importante. Noi ci chiediamo: perché loro fanno tanti figli? Perché è la loro unica ricchezza. Legato a questa ipotesi, c’è il riflesso negativo. Se una donna non fa figli può essere ripudiata dal marito e a quel punto è sola e abbandonata a se stessa. E non è facile far passare il messaggio che l’infertilità può essere anche responsabilità maschile: negli ultimi anni, ad esempio, sono riuscito a far fare degli spermiogrammi anche ai papà.

Com’è la tua giornata tipo in Togo?

Dal 2018 siamo diventati un po’ zingari nello stato del Togo. Ci siamo mossi alla ricerca di luoghi che avessero bisogno della nostra professionalità e abbiamo trovato istituti già consolidati con cui collaborare, in modo che la nostra presenza, che non è permanente, abbia una continuità garantita. Nella giornata tipo, io mi alzo presto e faccio le ecografie; oppure si parte e si va alla ricerca di luoghi da poter aiutare. Ultimamente abbiamo cominciato anche a costruire qualcosa; quest’anno abbiamo fatto tre pozzi. Ed è emozionante da vedere: c’è il rabdomante che trova il luogo in cui c’è l’acqua, poi arriva il camion della perforazione e quando raggiunge l’acqua c’è un momento bellissimo.


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Prima di mettere i tubi viene soffiata dell’aria nel buco e ne esce un getto d’acqua; a quel punto vedi le donne correre, pronte a raccogliere ogni goccia. Questo dice quanto sia prezioso come bene, l’acqua. Per mantenere la gestione del pozzo è stato creato un comitato e anche insegnare il modo di tenere i conti in ordine non è stato scontato; niente strumenti tecnici complicati, solo un quadernino. Eppure mi ha stupito vedere che anche questo aspetto concreto di cooperazione tra famiglie andava spiegato e fatto comprendere.

Ho seguito su Facebook le tue cronache quotidiane quando eri in Togo e intitolavi i tuoi post “aiutiamoli a casa loro”. Visto che questa espressione entra nel merito di un dibattito che in Italia rischia di essere molto astratto, mi spieghi cosa intendevi? Perché per te non vuol dire “noi siamo qua e loro stiano là lontani”, tu da loro ci sei andato e continui ad andarci …

Aiutarli a casa loro vuol dire innanzitutto rendersi conto che gli africani stanno bene a casa loro, questa è un’evidenza. Riconoscere che ci sono forti difficoltà, tragedie anche, nel loro paese d’origine è una cosa diversa dal dire che non amano la loro terra. Stanno bene a casa loro, quindi il tentativo di aiuto in cui io mi sono incamminato è quello di creare condizioni che li aiutino a stare nel luogo che loro amano. Si sta fianco a fianco a costruire e lavorare. Non sono io che sto davanti perché sono più bravo; non è la mentalità colonialista del ‘fai quel che voglio io’. Invece, siamo insieme: troviamo persone in grado di aiutarci per ogni necessità che emerge e proviamo a lavorare fianco a fianco.


African woman crying

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Ora ribaltiamo la domanda. Tu stai provando di aiutarli a casa loro, ma loro ti hanno aiutato a casa tua? Cioè: che nome dai al bene che porti a casa ogni volta dal Togo?

Non so darti una risposta, se non che non riesco a farne a meno. Sono tornato a casa da neanche un mese e tutti i giorni, più volte al giorno, la mia testa va al Togo col pensiero. Non è più un sogno, ora sono persone concrete con cui sono in cammino. L’aiuto è rivolto a dei volti precisi adesso, è un legame che rinvigorisce la mia energia umana. E il bello sarà quando anche là qualcuno comincerà a imitare la misura della gratuità, arrivare al passo grande per cui un uomo dice: “Se ho qualcosa in più, lo dono”. A febbraio è capitato che dopo la festa fatta per i bimbi adottati a distanza alcune mamme hanno spazzato il cortile di cui erano ospiti, senza che nessuno lo chiedesse loro; se vuoi è un gesto piccolo, ma di chi prova a ripagarti con la stessa moneta, cioé il dono gratuito.

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