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India, surrogata: bimbo “contestato”, padre esige prova DNA. Gli basterà?

FATHER AND SON

Di Wallenrock - Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 06/12/19

Un caso che non sembra destinato a restare eccezione. La filiazione ridotta a processo su commissione attacca alla radice le relazioni fondamentali. Un "padre" donatore di seme non crede che il medico abbia gestito al meglio la pratica di surrogazione: quello forse non è mio figlio, voglio la prova del DNA.
Una coppia di Mumbai ha chiesto all’Alta corte locale di poter effettuare il test del Dna su loro figlio, concepito in provetta e poi cresciuto nell’utero di una madre surrogata. La coppia indiana nutre dei dubbi sulla paternità del bambino e teme che in ospedale sia avvenuto uno scambio di culla. Ad AsiaNews il dott. Pascoal Carvalho, medico e membro della Pontificia accademia per la vita, denuncia: “Con la surrogazione di maternità, i bambini sono diventati merce. Essi invece sono un dono, non un diritto”. (AsiaNews)

Come se la prova del DNA potesse saldare la frattura provocata al figlio, al legame con la madre, scomposta in un tragico Picasso di donatrice e gestante, divergenti per contratto. Come se, foglio delle analisi alla mano, il sospetto di quest’uomo (padre “donatore” e “committente”) potesse sparire dalla vita di tutti: bambino, madre intenzionale, madre surrogata, medici, società, mondo. Altro che butterfly effect, altro che giustizia del karma, altro che siamo tutti legati da fili invisibili. Quando si tratta del male i fili diventano spinati. Non è un soffio leggero come un battito d’ali quello che si propaga, è il colpo di una spranga contro un portone, alla base di un pilastro. Fa rumore, fa tremare pareti e certezze, l’urto arriva a tutti.




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Eppure si sapeva già, lo si doveva sapere. La pratica dell’utero in affitto è un ricchissimo e pessimo affare. Porta soldi, toglie pace. Promette bambini, usurpa figli. Libera per finta donne dal peso della sterilità, ne distrugge altre nella loro intima dignità. Fa sognare figli, consegna orfani su commissione. Accredita denaro, infligge miseria.

Siamo in India, dove la legge dello Stato federale ha vietato la maternità surrogata cosiddetta commerciale, permettendola “solo” nella versione “altruistica”. Sono stanche persino le virgolette di alludere ad un senso che non c’è. Non esiste altruismo, non esiste nella realtà il fare un figlio per cortesia, non succede davvero che un figlio sia un regalo. Quando si parla di persone si tratta di soggetti e mai di oggetti, non tirino fuori di nuovo il pessimo paragone con la donazione di organi.

Quando si parla in termini pseudo-nobili è proprio perché sta succedendo esattamente il contrario: il figlio smette di essere dono, persona identica al padre e alla madre, stessa pasta, stesso modo di essere concepiti e nascere e diventa prodotto e merce, pur non essendolo: questo è il cratere da cui la lava della sofferenza continuerà ad uscire. Barattato per soldi, spacciato come elisir di felicità, subisce della merce la stessa sorte: soppesato, misurato, valutato, confrontato con le aspettative, maggiore indiziato per l’insoddisfazione che porterà nella coppia.

A tutt’oggi è passato solo da un ramo del Parlamento indiano un testo di legge che vieta la surrogata commerciale e i punti ancora in sospeso sono tanti e significativi: età della gestante, numero delle pratiche a cui può sottoporsi, divieto di “scarto” del bambino. Come già osservava la collega Annalisa Teggi (ragionando sul caso della donna che portava in grembo due gemelli morta in condizioni drammatiche), questa e tutte le altre leggi che vogliano regolamentare l’utero in affitto restano viziate alla radice. L’unica legge buona rispetto alla malamente detta “gestazione per altri” è quella che la mette al bando su scala planetaria, almeno.

Rubare bambini, per intendersi, non può diventare pratica moralmente accettabile se i ladri sono gentili, ben vestiti e ai fanciulli si regalano tante caramelle.

Il bimbo che è nato da poco su commissione della coppia indiana sposata da sette anni che è ricorsa all’Alta Corte è sano. Cosa c’è che non va allora? Che il padre-committente non si fida dei medici, non è convinto sia davvero suo figlio. Gli accordi prevedevano il concepimento in vitro con il suo seme e l’ovulo di una donatrice esterna alla coppia. Allora i legami genetici e le circostanze del concepimento e della gestazione restano importanti e tornano a chiedere il conto!

La coppia, sposata da sette anni e senza figli, si era rivolta a un ospedale di Mumbai per la fecondazione in vitro. Per privacy, non si conosce il nome del nosocomio. La denuncia riporta solo che i genitori nutrono sospetti sui dottori coinvolti nelle pratiche. Secondo loro, i medici avrebbero avuto un “comportamento sospetto”, perché si sarebbero rifiutati di portare la madre surrogata in una clinica specializzata, ma l’avrebbero tenuta in un centro in cui lavora il medico di riferimento. Ad ogni modo, i genitori hanno dichiarato che si prenderanno cura del figlio anche se dalle analisi dovesse risultare che non è loro. (AsiaNews)

Il veleno inoculato nel mondo con la diffusione e la promozione della procreazione usurpata al monopolio della sessualità umana diffonde i suoi effetti tossici in tutti. Non serviranno a niente le procedure, i paletti, i controlli: questo ed altri padri continueranno a sentirsi acquirenti più o meno soddisfatti e non uomini che hanno generato. Saranno loro stessi traditi nella propria natura.

Il desiderio armeggiato in questo modo fa male a tutti, agli adulti e ai bambini, separa alla radice madre e figlio, uomo e donna, generazione che genera e quella che è generata. L’effetto più tragico della mercificazione dei figli è la sua precedente industrializzazione: si parla di un figlio, pur che sia, mai di quel figlio. Si perde così tutta la grandiosità della faccenda umana: siamo unici e irripetibili, a noi lo ripetevano fino alla nausea. Ora gli affari si concludono sul banco della riproducibilità in serie, della del tutto fasulla ripetibilità del processo. Diventare padri e madri non è volere un figlio, ma stupirsi di quel figlio lì, che arriva come arriva, che è quel che è e non basteranno due vite, la nostra e la sua, ad assorbire l’urto di tanta meraviglia.

La riduzione in schiavitù che offende nella forma più severa possibile le madri e i bambini coinvolge persino i più crudeli carcerieri. A parte la divisa, la differenza tra il secondino e il recluso, dove sta in questi casi?

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