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Caro don Vincent, non ho paura della morte ma della sofferenza

WOMAN, HOSPITAL, SAD

KieferPix | Shutterstock

Fraternità San Carlo Borromeo - pubblicato il 15/01/20

Don Nagle è cappellano della Fondazione Maddalena Grassi, assiste i malati che fanno i conti con una morte prossima: la promessa dell’amore ci permette di stare nel dolore con un cuore liberato dall'angoscia.

Di Don Vincent Nagle

Da qualche anno sono cappellano della fondazione Maddalena Grassi, a Milano. Spesso le persone malate che incontro mi dicono: “Non ho paura della morte, ma della sofferenza”. Anche se capisco ciò che intendono, rispondo che la sofferenza è spesso sperimentata come l’approssimarsi del disfacimento materiale della propria persona, del corpo, della vita terrena, e che si fa molta, molta fatica a sopportare tutto ciò proprio a causa della paura della morte, dell’angoscia che deriva da questo pensiero. La morte e la sofferenza sono strettamente legate e il timore della sofferenza deriva dalla paura della morte. Ciò che, però, rende la sofferenza e la morte un ostacolo così arduo non è in primo luogo il dolore, che comunque rimane un fattore importante, bensì l’angoscia che generano, il presentimento della fine dell’esistenza così come la conosciamo, senza una chiara visione di un destino buono. È insopportabile. Ecco da dove deriva il nostro terrore davanti alla sofferenza.




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D’altro canto, non sempre il dolore provoca angoscia. Gli atleti spesso soffrono dolori forti e duraturi, considerati però come segno del successo perseguito nello sforzo legato alla disciplina in cui investono la loro vita. Ricordo che la mia ex fidanzata, che era una ballerina professionista di danza classica, alla fine delle sue prove di danza sulle punte si sedeva e toglieva le scarpette con la punta dura – che permette alla ballerina di sollevarsi – macchiate di sangue. Non le faceva nessuna impressione (a me invece sì!), era parte della sua crescita nella vita che amava. L’ostacolo non è la sofferenza, ma l’angoscia che essa provoca.
Quando accompagno le persone malate, la mia speranza è che possano percorrere un cammino di liberazione, non tanto dalla loro sofferenza quanto piuttosto dall’angoscia. Che possa cioè emergere in loro l’evidenza che è ragionevole investire liberamente e umanamente la propria vita nel particolare “compito” a loro richiesto.
Scopro continuamente che accompagnarli in questo cammino libera me, ancor prima di loro, da tanta della mia angoscia. Tutti noi, infatti, siamo angosciati dalla consapevolezza, spesso soffocata, della nostra ineluttabile estinzione sulla terra. Accompagnare i sofferenti perciò non significa unicamente aiutare loro ma domandare anche per me stesso la liberazione dall’angoscia che spero per loro. Cerco sempre di osservarli e ascoltarli attentamente per cogliere i segni di una grazia, una presenza, un senso, uno scopo o una speranza che potrebbe trasformare la strada di dolore da una pena ingiusta, subita per forza, in una via d’amore liberamente seguita.


CINZIA DAGOSTINO, SLA, PAPA

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Circa quattro anni fa fui chiamato in casa di una signora, malata di SLA, una malattia veramente dura che progressivamente priva dell’uso dei muscoli volontari, compresi quelli dei polmoni, lasciando la persona perfettamente cosciente eppure immobile, senza possibilità alcuna di comunicare.
Quando la conobbi la prima volta, poteva ancora muoversi un po’, respirare con la mascherina e parlare. Mi disse subito che voleva morire, che chiedeva di essere portata in Svizzera per l’eutanasia. Le chiesi perché desiderasse compiere questo passo drastico e mi raccontò che, all’inizio della sua malattia, una delle sue sorelle, Caterina, le stava vicino, ma che si era poi ammalata di tumore ed era morta in poco tempo. Sentendo che la sorella si chiamava Caterina, le parlai della mia devozione a santa Caterina da Siena. Si entusiasmò per questa santa e, leggendo insieme la biografia, cominciò a sentirsi vicina alla sorella morta.
Poi capii che c’era un altro motivo più forte al fondo del suo desiderio di morire: non sopportava l’idea di essere un peso per i suoi figli. In effetti, per loro seguire le necessità della mamma non era un compito da poco. Assistetti a scene di forte frustrazione, sia da parte dei fratelli sia da parte della madre. I figli faticavano ad adeguarsi lietamente alla difficile responsabilità che gravava su di loro.

CHORA KOBIETA
Rido | Shutterstock

Un giorno, mi trovai a parlare con lei dell’amore, e di come sia solo questo che conta: solo la memoria, la presenza e la promessa dell’amore ci permettono di stare nel mondo con un cuore liberoe grato. Ho poi aggiunto che la sua sofferenza poteva essere per i figli una “scuola”, una strada che li potesse indirizzare al loro compito di amare. Voleva davvero privare i suoi figli della possibilità di imparare il sacrificio proprio di chi ama?




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Poco alla volta lei, nel nome di Cristo e di santa Caterina, accolse questo compito. L’ultima volta che l’ho vista, prima della sua morte avvenuta a settembre, era serafica, grata, libera. Non si sentiva una vittima. Non era angosciata, ma aveva investito la sua vita in un grande compito che promette l’eternità: l’offerta all’amore.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA FRATERNITÀ SAN CARLO

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