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Rapita e violentata a 14 anni perché cristiana. Sentenza shock in Pakistan: è lecito

HUMA, YOUNUS, PAKISTAN

Youtube | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 04/02/20

Huma Younus è stata rapita il 10 ottobre e costretta a nozze forzate dopo uno stupro. L'Alta Corte del Pakistan sceglie di applicare la sharia, anziché la legge che tutela i minori dai matrimoni forzati: se la ragazza ha il ciclo mestruale, l'unione è valida.

La sharia è stata usata una volta di più in Pakistan per perseguitare le minoranze del paese, i cristiani in particolare. La sentenza emessa ieri, 3 Febbraio, dal tribunale di Karachi ne è una prova: due giudici dell’Alta Corte pachistana, Muhammad Iqbal Kalhoro e Irshad Ali Shah hanno dichiarato valido il matrimonio forzato tra la 14enne cristiana Huma Younus e il rapitore che l’ha stuprata e costretta a convertirsi all’Islam; secondo la legge islamica una bambina di qualsiasi età può contrarre matrimonio se è comparso il ciclo mestruale.




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Poteva essere una sentenza storica, ma è stata la tragica conferma di una persecuzione avallata dallo Stato: si trattava, infatti, del primo caso di conversione e matrimonio forzato che giungeva dinanzi a un’Alta Corte pachistana, e anche della prima volta in cui si chiedeva l’applicazione del Child Marriage Restraint Act, legge che vieta i matrimoni con minori, entrata in vigore nel 2014 e finora mai applicata. Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre (l’organizzazione che ha aiutato la famiglia della ragazza a far fronte alle spese legali) ha commentato la sentenza con parole di fuoco:

La sentenza di stamattina getta un’onta sul sistema giudiziario pachistano. È inimmaginabile che si possa far prevalere la sharia sulla legge di Stato. Noi esprimiamo tutta la nostra indignazione, ma al tempo stesso non ci arrendiamo. Per Huma e per le oltre mille ragazze e perfino bambine che in Pakistan ogni anno vengono rapite, stuprate, convertite con la forza all’Islam e costrette a sposare il loro rapitore. Ma apprendiamo oggi che tutto è lecito, perché in Pakistan anche una bambina di otto o nove anni che ha già avuto le mestruazioni, può essere legalmente data in moglie. (da In terris)

L’incubo di Huma e di troppe altre

Huma Younus è scomparsa lo scorso 10 ottobre, la sua appartenenza alla minoranza cristiana (l’1% della popolazione pachistana) ha fatto presagire che si ripetesse quello che è il tragico rituale delle conversioni forzate all’Islam: giovanissime rapite, stuprate e poi sposate dai loro aguzzini. L’epilogo, per alcune, è l’uccisione dopo aver subito violenza. Se per noi è già orribile immaginare uno scenario di sopruso così disumano, un ulteriore pugno nello stomaco arriva scoprendo cosa accade quando le famiglie delle vittime si rivolgono alla giustizia.

Innazitutto i rapitori sono sempre noti e presenti in aula: il processo non verte sulla loro colpa, ma sul tentativo di riportare a casa la ragazza seguendo una via legale.  Così è nel caso di Huma, il cui sequestratore si chiama Abdul Jabbar ed è stato tanto sfacciatamente sicuro delle sue azioni da aver perfino minacciato i genitori della ragazza usando la legge sulla blasfemia come forma di intimidazione. Questa è l’altra arma potentissima che dà agli integralisti islamici la forza di una prevaricazione senza limiti, come ha spiegato l’avvocato che difende la famiglia Younus:

Non è raro che ciò avvenga – spiega la Yousaf, che ha già seguito molti altri casi di conversioni e matrimoni forzati – Gli aggressori musulmani spesso minacciano genitori e avvocati, servendosi della legge anti-blasfemia. Dicono: “se non smettete di cercare vostra figlia, strappiamo delle pagine del Corano, le mettiamo davanti casa vostra e diciamo che avete profanato il libro sacro”. (da Avvenire)
Pakistani Christians protest Peshawar church attack
Hussain Anjum / Anadolu Agency

Come se non ci fosse fine al peggio, un altro tassello inquietante si aggiunge alla trama dei fatti: la connivenza delle forze dell’ordine coi sequestratori e violentatori. Il tema del rapimento richiama alla nostra memoria storie in cui la vittima viene nascosta in qualche luogo ignoto fino al blitz delle forze dell’ordine, magari dopo mesi di indagini. Niente di tutto questo in Pakistan: si sa bene dove sia Huma, ed è scandaloso che la polizia s’inchini con l’omertà ai sequestratori. Ieri doveva essere un momento storico perché proprio Huma era stata convocata in udienza, i genitori si aspettavano di vederla ed sarebbe stata un’occasione storica per dar voce alle vittime. Al contrario,

Huma avrebbe dovuto presentarsi in aula, come richiesto dai giudici durante la precedente udienza del 16 gennaio al poliziotto incaricato delle indagini Akhtar Hussain. Interrogato sull’assenza della ragazza, stamattina l’agente si è limitato a dire che la giovane era stata convocata. Sin dall’inizio della vicenda Hussain ha mantenuto un atteggiamento ambiguo destando forti sospetti di una sua complicità con il rapitore Jabbar. (da Avvenire)

Rakhshanda Ilyas

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Si tratta, peraltro, dello stesso poliziotto che era stato incaricato dal tribunale di eseguire una visita medica su Huma per dimostrarne o meno la maggiore età; e si sospetta che i dati di tale referto siano stati contraffatti. I genitori della ragazza hanno perciò dovuto presentare alla Corte dei documenti che ne attestano la nascita: 22 maggio 2005. A fronte dell’innegabile minore età, la cornice di questa tragica vicenda si chiude per ora con la sentenza clamorosa riportata in apertura: non potendo puntare sul fatto che fosse maggiorenne, i giudici si sono rifatti alla sharia che dichiara valido il matrimonio con una minorenne, qualora siano comparse le mestruazioni.

La battaglia non finisce

Dobbiamo costringere il Paese ad applicare la legge sull’età minima del consenso e non quella coranica. Noi chiediamo rispetto reciproco per tutti i cittadini del Pakistan. (da Vatican News)

A pronunciare questa frase è l’altra protagonista femminile di questa storia, l’avvocatessa Tabassum Yousaf, 38 anni, cristiana e madre di due bambini. Ha preso lei le difese della famiglia Younus, di estrazione poverissima. Per questa sua scelta è stata minacciata di morte, ma non ha intenzione di lasciarsi intimorire:

Non è che io non abbia paura per la mia vita, ma considero assistere i cristiani perseguitati come una missione ed un servizio reso a Dio e alla mia Chiesa. E non saranno delle minacce a fermarmi. (da Vatican News)

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La sua battaglia prende le mosse da una premessa ideale di fede e di missione umanitaria, ma si gioca sul campo insidioso della legge. Pare avere le idee molto chiare su cosa ci sia in ballo per il Pakistan: da una parte nel 2014 è stata approvata una legge contro i matrimoni forzati coi minorenni, «approvata soltanto per accreditare il Paese agli occhi della comunità internazionale, chiedere fondi per lo sviluppo e commerciare gratuitamente i prodotti pachistani nel mercato europeo»; dall’altra la prassi è quella di continuare ad applicare la legge islamica per continuare la persecuzione dei cristiani.


PAKISTANKA

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A livello di diplomazia internazionale, sarebbe bene avere gli occhi ben aperti e la voce tonante nei confronti di un paese in cui l’abuso sull’infanzia è avallato dai tribunali. Da cristiani non possiamo tacere. Sappiamo della forza che anima i nostri fratelli di fede perseguitati, tutti abbiamo nel cuore Asia Bibi. Spetta però anche a noi non lasciare che il grido che arriva dal Pakistan si perda in mezzo a mille altri rumori più assordanti. Da questo punto di vista, una strada facilmente percorribile è quella delle testimonianze: ospitiamo nelle nostre città i testimoni che vengono dalle zone perseguitate. Facciamo conoscere queste storie ai nostri concittadini, perché ai più è ignoto quello che accade in certe zone dell’Asia e dell’Africa.  Aiuto alla chiesa che soffre è in prima linea e può offrire testimonianze di chi vive la persecuzione sulla propria pelle. L’attenzione viva dell’opinione pubblica è un primo grande passo verso una vera e propria mobilitazione a livello internazionale, come sottolinea l’avvocato della famiglia Younus:

La liberazione di Asia Bibi è stata una vittoria, ma le condizioni dei cristiani in Pakistan non sono cambiate. Per questo non dobbiamo spegnere i riflettori su casi come quello di Huma. Soltanto così riusciremo a far intervenire le alte cariche politiche locali. E se vinceremo e riporteremo Huma a casa, una simile sentenza aiuterà molto anche le tante altre ragazze cristiane rapite e convertite con la forza all’Islam. Ma per farlo c’è bisogno della pressione internazionale, perché nonostante i nostri sforzi per attirare l’attenzione sul caso, in Pakistan tutto è fermo. (Ibid)
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