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Se essere donne significa conoscere il potere della parola (e la forza del silenzio!)

KOBIETA W ŚWIETLE

diego Authentic/Unsplash | CC0

Paola Belletti - pubblicato il 07/02/20

La natura femminile e quella maschile sono diverse anche nel modo di aiutare o ferire, di creare o distruggere. Diventare donne significa anche sapere cosa dire per far crescere e cosa non dire per custodire. Per gli uomini vuol dire decidere per chi sacrificarsi e così essere davvero potenti, non prepotenti.

Il nostro potere è nelle parole. E anche la nostra forza distruttrice.

Siamo donne e, checché ne dicano spesso le donne stesse (ma, appunto lo dicono parlando!), siamo particolarmente portate alle relazioni, alla conversazione, alla cura continua dei rapporti. Penso alla resistenza di Penelope: tutta nella tessitura diurna e nel suo disfacimento nottetempo. Va bene, non posso azzardare altro perché troppo poco conosco il poema omerico e ancora meno i vincoli e le fatiche di chi al telaio ci lavorava – o lavora- davvero. Pare che disfare la trama sia quasi impossibile, se non a prezzo di spezzare il filo.

In ogni caso quello che Penelope faceva (anche disfacendo) era mantenere vivo il legame con il suo sposo non concedendo ai nuovi pretendenti altro se non fuggevoli ricami. Mi affascina che l’immagine sia proprio quella del tessere una tela (destinata al copro del marito caduto, secondo gli altri).

Siamo così fin dall’inizio, cioè pare persino dalla vita intrauterina, di sicuro lo dimostriamo già nei primi giorni della nostra vita all’aria aperta.

Ci interessano i visi, cogliamo le sfumature della voce, sappiamo decifrare intenzioni e non solo suoni e segni. Certo, se ci ricordiamo che nel secondo dei racconti della Creazione noi veniamo plasmate dall’uomo (cioè da una materia ben più nobile della terra) e siamo condotte a lui con il resto della creazione già compiuta, possiamo dedurre che così è il nostro modo di stare nel mondo: con una persona davanti a noi, con qualcuno che lo abita, amando la natura già ammansita e tolta all’anonimato dalla presenza signorile dell’uomo. Non so come tutto questo possa essere stato distorto e considerato la base culturale del maschilismo (mentre invece lo è la tentazione di ridurre la donna a oggetto. O l’uomo a nostro burattino). Mi pare la fondazione logica e teologica della nobiltà della donna. Uguale ma per certi versi quasi superiore, quasi prediletta. Compimento del compimento della creazione.

Comunque, resta il fatto che “quanto ce piace de chiacchiera’” è così dalla notte dei tempi. Anche se a me non pare di chiacchierare tanto spesso; non sopporto la sensazione di disordine e dispersione che ci lascia addosso la chiacchiera sciocca, il parlare senza verso e direzione. E lo so proprio perché l’ho fatto, lo faccio, mio malgrado.

Le mie figlie, una soprattutto, mi fanno notare che le (ahimè rare) volte che posso intrattenermi con qualche amica i minuti scorrono tutti parlando. Mamma tu parli, racconti, ascolti. Ma che cosa avete sempre da dire?

Tutto e in ogni caso abbiamo sempre appena cominciato. E parlare degli altri, spesso, non è affatto pettegolezzo. Parliamo di noi con l’altro: i figli, il marito, la mamma, la cognata, le amicizie che sbocciano o quelle che non arrivano (e il nostro cuore ne ha una grande pena!) per la figlia, il figlio.

E diciamo parole intorno alle parole ricevute come schiaffi o assestate da noi come tali. Le parole per capire e per guarire. Le parole, secondo mio marito, per stordire. Troppa trama, dice. Ha le sue eccellenti ragioni però, se tenesse per buone soltanto quelle, diventerebbero la sua barbarie. Solo cose che contano, solo fatti, solo decisioni prese una volta per tutte, niente fronzoli.

Non sono fronzoli, non sempre. Sto riflettendo sul tema della parola, su quanto siano proprio le parole le tante corde tese che facciamo vibrare perché la musica non si fermi, intorno a noi e soprattutto agli altri, quelli intessuti con la nostra stessa vita.




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Non risolvo in effetti tanti problemi, nella vita quotidiana, ma sono l’esperta della manutenzione, del garantire che la vita scorra, che le cose si facciano almeno in qualche modo, che le persone a me affidate sappiano chi sono e per chi. Sono il sottofondo, l’accompagnamento, sono l’aiuto per questo a volte mi pare di sparire. Ottimo segno, credo.

Quando sto male invece, quando la solitudine o peggio il carico di compiti e richieste non fa che aumentare e la mia forza invece mi pare scemare, ecco quando mi sento disarcionata dalla sella della mia vita allora avveleno l’aria di tutti con parole tossiche. Non cattive per forza ma disgreganti, di lamentela, di sconforto talmente profondo che temo possa togliere speranza anche agli altri, soprattutto i piccoli che da me hanno bevuto latte e lingua madre, anche quella delle emozioni, della passioni, del senso della vita.

Per questo trovo nelle parole che pochi mesi fa Mariolina Ceriotti Migliarese  (neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta per adulti e coppie) ha affidato ad Avvenire una sponda solida ai miei pensieri intorno alla natura femminile e maschile e alla loro così benefica reciprocità. Ritrovo argine ad acque che, non contenute, diventano rivoli e poi fango, invece di scorrere verso un qualche mare o fiume più grande capace a sua volta di una foce. Siamo fatte in un certo modo e diventiamo anche donne secondo un certo movimento, grazie a certe piccole battaglie, a dolori e ferite, a confronti e amicizie che ci allenano e ci formano. Diventiamo capaci e potenti secondo la nostra specifica cifra femminile e con quella anche in grado di distruzione dell’altro secondo una forza, lo dice benissimo la …, che devasta dall’interno. Come l’uomo adulto, invece, se è tale è potente e non prepotente mentre quello che non cresce allora sa frantumare le cose e gli altri con la ferocia, con la forza crudele che schiaccia da fuori. La nostra ambivalenza sta sempre tutta nel male possibile che ci insidia e seduce e nella nostra volontà di guarire, lottando in noi stessi e nutrendo il bene. Non da soli, non con la sola forza di volontà ma nemmeno senza di essa. La grazia guarisce ma non supplisce a ciò che tocca a noi.

Ma è soprattutto a partire dalla pubertà che l’interesse della bambina si orienta in modo deciso verso l’esplorazione del mondo delle relazioni, con il loro complicato intreccio di amicizie, rivalità, innamoramenti, conflitti: le ragazze appaiono estremamente attente e interessate a lavorare con la mente su tutto ciò che riguarda i rapporti per loro significativi, e insieme sono anche molto vulnerabili e facili da ferire (…). Tutta l’adolescenza femminile è in qualche modo un periodo di intenso e spesso sofferto allenamento a leggere le emozioni e a costruire rapporti, attraverso un costante lavorio personale (…) che permette un progressivo affinamento delle abilità relazionali e che porta la ragazza a diventare una donna capace di tessere intorno a sé le complesse relazioni affettive di cui diventerà protagonista.Il maschio ha come dono specifico la possibilità di essere “potente”: la potenza maschile è l’opposto della prepotenza e dell’impotenza, frutti entrambi di personalità narcisistiche e immature; la vera potenza buona del maschio corrisponde invece allo sviluppo di un atteggiamento generoso, magnanimo, capace di generare al mondo idee, figli, progetti: tutti frutti rivolti al futuro. Quando però l’uomo perde il controllo della potenza, la sua forza può trasformarsi in violenza e distruzione: la cattiveria maschile diventa in questo caso crudeltà, talvolta persino sadismo. La cattiveria femminile invece agisce dall’interno, perché proprio là dov’è il nostro potere si annida anche la tentazione: il rischio allora è che la competenza a tessere, cucire e arricchire i rapporti si trasformi in un’arma pericolosa, che corrode le relazioni con la sottile distorsione che nasce dall’uso disattento, superficiale o addirittura malevolo della parola.

Non siamo solite, quasi tutte, avere in rubrica un paio di nomi da chiamare con la certezza che raccoglieranno la nostra infuocata confidenza, legittim per carità, e che forse si piegheranno al compito di darci ragione, fin troppo?

Davanti ad un torto subìto (vero o presunto che sia) e al disagio che ne consegue è molto difficile sfuggire alla tentazione molto umana di “sfogarsi”, o rinunciare al conforto che ci arriva dalla solidarietà di un’amica; ma proprio la logica dell’amicizia, con la confidenza che comporta, abbassa la vigilanza su ciò che diciamo: diventa perciò molto alto il rischio di dire cose parziali come se fossero la verità sull’altro; di chiudere la persona di cui si parla in un giudizio che sarà difficile modificare.

Se la parola è il nostro potere, la nostra vera forza sta nel silenzio sapido, carico di senso, quello scelto, quello che tace i limiti altrui, che diventa anche svuotamento di sè per fare spazio al bene di chi ho davanti anche solo sullo schermo della mente.

Trovo dunque illuminante e davvero preziosa l’indicazione che ci arriva da una frase della poetessa Alda Merini, quando dice: «Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire». Aggiungerei però che amo molto anche chi sa cogliere e mettere nei discorsi una parola buona, capace di gettare luce sulle doti piccole o grandi che chiunque, anche la persona più antipatica, oggettivamente possiede.



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