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Sparire all’improvviso senza dare spiegazioni. Quanto fa male il ghosting?

GIRL, BLURRED, PROFILE

Oleg Golovnev | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 19/02/20

Piuttosto che dire addio si sceglie di scomparire, per vendicarsi con cinismo o per paura di affrontare l'altro. Sempre più giovani diventano fantasmi, assetati di relazioni eppure in difficoltà a viverne anche i conflitti.

Le relazioni sono pericolose, tutte. Che siano di amicizia o di amore, che siano di lavoro o di vicinato, ci chiedono la fatica che ogni legame esige: non vivere al singolare. Pericoloso può arrivare a significare qualcosa di seriamente grave da cui allontanarsi; ma più comunemente le relazioni sono pericolose perché ci chiedono di stare nel vivo di un imprevisto continuo, di essere presenti a un dialogo umano in cui nessun copione è scritto. Fraintendere, ferire, deludere, tradire sono traumi che fanno parte dei nostri vissuti affettivi; in ogni tipo di legame è impossibile non affrontare le obiezioni, le contraddizioni, le incomprensioni. E starci dentro, nel mezzo del cammino – direbbe Dante, è durissima. Non è dunque scandaloso pensare che la tentazione di fuggire sia così assurda.


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Vittime

Tutti abbiamo pensato di scappare senza dare spiegazioni, di fronte a situazioni critiche o che per essere sciolte esigevano un coinvolgimento emotivo troppo intenso. Qualcuno, me compresa, oltre a pensarlo lo ha anche messo in pratica (sentendone tutta la colpa): chiudere i ponti, voltare le spalle all’improvviso, tacere e ignorare a oltranza. Può accadere per bieco menefreghismo e può pure accadere per mirata vendetta, ma può accadere anche per un eccesso di fragilità personale. A questo comportamento è stato dato un nome: ghosting, «chiudere una relazione ignorando tutte le comunicazioni da parte dell’altra persona».

L’idea che sta dietro questa pratica è che rendersi un fantasma sia un modo indolore per fare capire all’altro che l’interesse non c’è o si è esaurito, senza dirglielo brutalmente. Ma in realtà, chi subisce ghosting si avvita in una spirale di pensieri autosvalutanti e autodistruttivi, finendo il più delle volte con l’attribuire a se stesso ogni colpa (vera o presunta) dell’allontanamento del partner. All’opposto, chi fa ghosting rigetta le responsabilità emotive connaturate alla chiusura di una relazione ed evita il peso del confronto, autoassolvendosi con la convinzione di agire nel bene dell’altro. (da DonnaModerna)

Questa descrizione, per quanto calzante, tende a definire nettamente chi è la vittima e chi il carnefice, ma nell’ambito delle relazioni è tanto difficile puntare il dito in una sola direzione. È evidente che la persona che viene lasciata senza spiegazioni e assiste alla scomparsa improvvisa di ogni tipo di comunicazione con l’ex-partner sia sempre una vittima, e patisca un dolore lacerante. Non sparisce, infatti, solo l’altro ma anche tutto ciò che insieme si era costruito:

Sparire significa metaforicamente comunicare che non si esiste più per l’altro e inviare anche l’angosciante messaggio che (forse) non si è mai esistiti insieme. (da Il sigaro di Freud)

DONNA, RABBIA, SOLA

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Il presunto carnefice (chi scompare senza lasciare più traccia alcuna) talvolta lo è davvero: la sua condotta può essere una vendetta pianificata a tavolino, oppure può essere la superficialità di chi ha iniziato una relazione spensierata e non vuole darsi pensieri nel chiuderla, rendendosi conto che sta diventando un legame importante. Non da ultimo, però, può essere che il presunto carnefice abbia una grossa fragilità personale con cui fare i conti. Chi ha, ad esempio, alle spalle dei rapporti familiari feriti può essere molto immaturo nella gestione dei conflitti da adulto, come ho trovato descritto in questo racconto:

Quando ero piccolo mio padre mi prometteva che sarebbe venuto a prendermi per portarmi in posti nuovi ed entusiasmanti – i miei si sono separati un paio d’anni dopo la mia nascita – ma spesso non si presentava agli appuntamenti, senza nemmeno avvisarmi. Restavo in attesa, per ore, vicino al telefono che non squillava. Le sue sparizioni non sono mai state accompagnate da una spiegazione, e lui ricompariva magari dopo una settimana o due, come se nulla fosse. Non è un modo di giustificarmi: fare ghosting è terribile, ma è contagioso. A credere che si possano gestire in questa maniera le relazioni si impara; è un comportamento a cui si assiste e di cui poi ci si appropria. E anche se un trauma pregresso non elimina la responsabilità delle nostre azioni, almeno fornisce un appiglio dal quale partire per risolvere la cosa. […]. Noi amanti del ghosting abbiamo serie difficoltà ad accettare l’idea di poter deludere le aspettative dell’altro. Non riusciamo a essere i cattivi della situazione, o i deboli, o quelli sbagliati. Non vogliamo sentire su di noi il peso del giudizio negativo della persona a cui diciamo no, e quindi scegliamo di non vedere le conseguenze delle nostre azioni. Evitiamo il nostro disagio annullando del tutto l’altro, nel tentativo (assurdo) di essere amati lo stesso, nonostante la rottura. O almeno di non vederci proiettati addosso una perdita di stima e delusione. (da The vision)
CHLOE CRESS
Facebook-Shawn Cress

Tutta la complessità che emerge da questo quadro punta in un’unica direzione, lancia un allarme a tutti noi: anche dai conflitti si impara a costruire una relazione, e l’opposto delle relazioni non è la solitudine ma la scomparsa di ogni singolo io. Senza legami, e senza la capacità di sciogliere i legami, siamo fantasmi.

Catene virtuali

Lasciare, nel senso di chiudere un rapporto, è un gesto emotivamente complesso perché mette sul tavolo l’esperienza di un fallimento o la paura di dire a voce alta le obiezioni che covano dentro. Guardare negli occhi un’altra persona, stare di fronte a un interlocutore che reagisce può essere un peso insostenibile o una fatica da evitare per chi vuole defilarsi. Ma oggi persino abbandonare un gruppo Whatsapp richiede un mucchio di giustificazioni; cioé: è diventato emotivamente pesante un gesto che richiederebbe solo di cliccare un pulsante. Il virtuale che sembra facilitare e moltiplicare le relazioni, ne complica la comprensione e non aiuta a viverle davvero.


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L’iperconnessione altera i legami: per dimostrare che vogliamo bene a qualcuno dobbiamo rispondere velocemente e con mille emoticon colorate; ne deriva una pressione che non ha niente a che fare con la premura, ma solo con il controllo reciproco. E il risvolto negativo è persino peggiore. Un tempo un innamorato poteva scomparire dall’oggi al domani senza farsi più sentire, ed era terribile: diventava letteralmente un fantasma. Oggi sparire significa non solo interrompere senza alcuna giustificazione le comunicazioni con l’altro, ma bloccarlo sui social network. E bloccare è un gesto tutt’altro che da fantasma, è ben visibile agli occhi della vittima che ne percepisce tutta la violenza meditata.

A quanto pare questo fenomeno del ghosting è in vertiginosa crescita tra i più giovani, nella fascia 18-29 anni. E non è facile dare un lettura di questo dato. Da una parte c’è una tendenza a vivere le relazioni in modo più superficiale, epidermico ed edonistico, e dunque anche il momento dell’interruzione – che meriterebbe una cura assoluta – viene trattato come pura formalità degna di nessuna spiegazione. Dall’altra, questa tendenza a sparire ci può anche suggerire uno spavento, un’incapacità di rimanere quando «le cose si fanno serie». In un caso e nell’altro la spia luminosa che si accende parla di una fuga dal mondo delle presenze, di un io che si atrofizza perché incapace di radicarsi nelle relazioni. NB: e ci si radica tantissimo anche imparando a gestire quei conflitti che preludono a un addio.

Restare di fronte a un addio

La parola che ho visto entrare in gioco facilmente parlando di ghosting è responsabilità: chi sparisce senza dare spiegazioni è incapace di assumersi le responsabilità che un legame richiede, anche nel momento dell’addio. Vero. Eppure di questi tempi «responsabilità» è una parola ostile, che sembra aver a che fare col diventare seri, tristi, coriacei. Mi chiedo se non sia più fecondo provare a innestare una riflessione sul verbo restare: Gesù nel Vangelo lo ripete tantissimo ai suoi Apostoli e discepoli, perché sa che è una fatica grande rimanere lì – insieme agli altri – anche nel momento della frattura. Che un legame richieda anche l’essere insieme nel dirsi addio è un mistero sempre più ostile alla nostra sensibilità. Restare non significa evitare le rotture, ma essere capaci di guardarsi anche per dire «basta». Richiede un allenamento a certi muscoli emotivi che si sono atrofizzati.


KOBIETA W ŚWIETLE

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Chi attua tutte le strategie possibili per sparire agli occhi dell’altro, sparisce davvero anche a se stesso. Ammette di non saper dare un nome a sé, non dando un nome al rapporto che distrugge. Il fantasma che aleggia su tutti noi è proprio la mancanza di ragioni positive per avere il coraggio di «restare» dentro ogni tipo di rapporti, di viverne la presenza e di sentirne il peso, talvolta la zavorra. Perché fare la fatica di spiegare? Perché fare la fatica di discutere e poi voltarsi le spalle? Certe volte si fa fatica ad alzare gli occhi e sostenere una conversazione proprio con quella persona. Eppure è lì la fucina dove si forgia il nostro stesso io: ci fa bene sentire la nostra voce che arranca e sospira in questi momenti in cui vorrebbe essere altrove, sparire. Siamo materia pesante, e può dar fastidio. Non siamo invisibili, c’è chi inciampa su di noi e si fa male; possiamo – perciò – anche partire da qui, da questo gradino minimo, per ricordarci che non siamo insignificanti. C’è tanto di noi in gioco quando affrontiamo le parole arrabbiate di chi ci grida contro: “Insomma, cosa vuoi? Perché sei qui?”.

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