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Che cosa c’è di diverso, in questo Giovedì Santo, da tutti gli altri giovedì santi?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 09/04/20

Per una suggestiva congiuntura astrale, nell'anno in cui all'inarrestabile XXI secolo è stato posto il duro guinzaglio del Coronavirus la Pasqua ebraica e quella cristiana tornano a sfiorarsi sul calendario. Dalle Haggadôt del Talmud potremmo attingere a piene mani per non trasformarci da fedeli in telespettatori, in queste notti sante: dà gioia registrare che proprio a questo, in effetti, sta portando l'istinto soprannaturale della fede – sia nei fedeli e nei parroci sia nei vescovi e nelle Conferenze Episcopali.

All’inizio della quarantena dissi in redazione (ossia in chat, ché #stiamoacasa e non c’incontriamo dal vivo): «Quest’anno potremo finalmente rispolverare le haggadôt del Seder di Pesach!». Era l’inizio di marzo e ancora non erano state emanate le disposizioni della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, né le Indicazioni della Cei e i decreti dei singoli Vescovi italiani.




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Certo non c’era bisogno di essere Geremia per presagire che la crisi sanitaria non sarebbe rientrata in poche settimane, e che anzi ben presto l’escalation di numeri avrebbe convinto il Paese al lockdown (più o meno) generale. Mi era venuto in mente il collegamento con le haggadôt anzitutto perché si tratta di una liturgia domestica e famigliare, cioè quella che quasi tutti noi (eccetto i sacerdoti e le comunità monastiche) saremo costretti a organizzare stasera: vale la pena ricordare, in tal senso, che anche per i giudei di un tempo, come per i cristiani adesso, l’elaborazione di questa haggadah (l’equivalente rabbinico per “liturgia” e “diritto canonico/ecclesiastico”) fu la risposta creativa a uno stato di necessità. La distanza dal Tempio prima (per la deportazione babilonese o semplicemente per la diaspora), la distruzione del già citato Tempio poi (dal 70 al 120 d.C. la persecuzione romana tentò di distruggere il giudaismo stesso) produssero una violenta “mutazione climatica” nell’habitat del giudaismo intertestamentario, e i primi a farne le spese furono Sadducei e Zeloti. I primi vivevano del culto templare, i secondi tentarono la resistenza armata all’Aquila Romana: questi furono annientati e quelli dispersi. Gli esseni si azzerarono nell’inesorabile accentuazione della loro marginalità (anche perché vivevano come satellite spirituale e ascetico del culto ordinario, ma non indipendentemente) e gli unici che già intorno al 90 d.C. inventarono un “Piano B” furono i farisei. Benedetti farisei, troppo ingiustamente bistrattati (laddove Gesù stesso polemizzava con loro da quanto li amava), che hanno escogitato l’uovo di Colombo del sostituire la Legge al Tempio: se non c’è più il Tempio (per ora! ma sarà ricostruito e noi lo vedremo!), possiamo intanto celebrare “haggadòl Adonàj” (la grandezza del Signore) nelle nostre case.




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Questo lo pensavo più di un mese fa, dicevo. La ragione per cui lo scrivo oggi, invece, è a sua volta duplice: da un lato i fratelli giudei stanno celebrando Pesach proprio in questa settimana (חַגכָּשֵׁרוְשָׂמֵחַ: nella distanza da quarantena, questa prossimità – la minore consentita dal computo pasquale niceno – mi commuove particolarmente), anzi il 14 nisan è caduto ieri; dall’altro questa celebrazione è precisamente quella che Gesù celebrò coi suoi discepoli – in clima domestico e famigliare – e che noi ricordiamo all’inizio del Triduo, proprio oggi.




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Proprio questa sera rievocheremo, per la prima volta in casa e non in chiesa, il memoriale della liturgia domestica e famigliare che Gesù celebrò coi suoi discepoli e che i fratelli giudei hanno celebrato ieri sera. Proprio ieri su L’Osservatore Romano Abraham Skorka ricordava:


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La Bibbia prescrive al popolo d’Israele di fare una cena familiare rituale la sera in cui inizia Pesach. Il suo fine è di far rivivere alle successive generazioni i sentimenti degli antichi ebrei che si preparavano a intraprendere il cammino della libertà dall’oppressione. I genitori devono raccontare ai propri figli, seduti attorno al tavolo, la storia dell’Esodo, traendovene le implicazioni per il presente. Gli ebrei guardano anche avanti, al tempo futuro, quando il mondo stesso sarà trasformato secondo la volontà di Dio. Alla cena di Pesach (Seder) viene preparata una coppa speciale per il profeta Elia, annunciatore del Messia e della vita trasformata dei tempi messianici.

I saggi rabbinici intesero i quattro versetti biblici che prescrivono questo compito educativo (Esodo 12, 26; 13, 8; 13, 14; Deuteronomio 6, 20) come riferiti a quattro tipi di persone: i saggi, gli indegni, i semplici e coloro che non sanno come porre domande. Essi conclusero che gli insegnamenti relativi all’Esodo dovevano essere adattati a ognuna di queste categorie. Tutte le diverse personalità devono sentire l’impatto del messaggio di dignità e speranza che è necessario per liberare uno spirito ridotto in schiavitù. Un tale spirito è richiesto oggi a tante persone e tanti governanti in tutto il mondo — qualunque sia la loro personalità individuale — al fine di correggere quei fattori sistemici che hanno consentito all’epidemia di diventare una pandemia, che è dilagata lasciando migliaia di morti.

La melodia “Mah nistanah ahllailah ze” (“Che cosa c’è di diverso in questa notte…?”) è variamente nota anche tra cristiani, e rimanda anche quanti fra noi non hanno mai sfogliato il Talmud a un contesto conviviale e rituale, sacrale e domestico, nel quale è importante, anzi essenziale, che ogni anno i figli e le figlie pongano ai padri e alle madri domande sul significato dei riti e della commemorazione: la prima di “queste notti” di veglia fu una notte di angoscia per la liberazione dalla schiavitù; la seconda fu una notte da sudar sangue in vista del più immane esodo dal peccato e dalla morte; e noi che diremo stasera ai nostri figli? Avremo ancora una speranza da comunicare loro, in un momento che ci sembra assai grave ma che dovremo rapportare alla schiavitù in terra altrui, alla flagellazione, alla crocifissione e all’allontanamento da Dio?

Per questo mi commuove vedere che sui social si moltiplichino non solo “le dirette” delle celebrazioni che (in forma più o meno essenziale) comunque si terranno pur se in regime di quarantena, ma soprattutto di “tutorial per le celebrazioni domestiche”. Amo i tutorial della rabbina francese Delphine Horvilleur che illustra con dettaglio le simbologie e le domande della cena pasquale; amo i video di preti cattolici che s’improvvisano “di nuovo rabbini” e condividono spunti perché i parrocchiani compiano un qualche rito domestico a imitazione di ciò che fece il Signore (perché mai e poi mai una Pasqua – quale che sia – potrà ridursi a “qualcosa da guardare”). Sono fiero di scrivere per una testata che ha proposto qualcosa di simile già da settimane e che in questi giorni intensifica il suo lavoro internazionale. Sono infine grato ai nostri vescovi italiani per aver approntato un sussidio che invita tutte le famiglie cristiane a celebrare in casa, secondo le possibilità di ciascuno, il memoriale della morte del Signore.

E ci saluteremo augurandoci che «l’anno prossimo – secondo le haggadôt – festeggeremo a Gerusalemme».

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