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“Dioversione” vs introversione: raccoglierci non in noi stessi, ma in Dio

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Reprodução/CN

A12 - pubblicato il 01/06/20

Il silenzio può essere uno stato di “Dioversione”: un movimento interiore in direzione di Dio, di profonda comunione con Lui

Martín Ugarteche Fernández ha scritto un testo in cui spiega la differenza tra l’introversione e un concetto che può suonare nuovo a molta gente, la “Dioversione”.

Il testo parte da un libro scritto da padre Penido sul cardinale Newman, in cui, tra gli altri aspetti della personalità del santo inglese, sottolinea la “Dioversione”. A prima vista si tratta di una “modalità di introversione”, ma c’è una notevole differenza tra i due concetti: l’introversione consiste nel rimanere concentrati su se stessi, “rivolti verso l’interno di sé”, mentre la “Dioversione” è un volgersi a Dio, un movimento interiore verso di Lui, una specie di ascesa che si fa nell’esperienza di comunione con Lui.

Entrambi i concetti hanno a che vedere con il silenzio, ma la “Dioversione” implica un silenzio molto più profondo della semplice assenza di parole: è la capacità di stare attenti e di custodire i fatti nel cuore, su esempio di Maria, Madre di Gesù e madre nostra.

L’uomo e la donna silenziosi discernono quando è bene parlare e quando è meglio tacere. Il criterio fondamentale per questo discernimento è la carità. A volte quel desiderio può rispondere a una necessità che proviamo di stare da soli con Dio, di udire più chiaramente la sua voce, di permettere che la sua Parola accarezzi e rinnovi il nostro cuore dopo un momento molto intenso di attività. Se è questo il caso, non voler parlare sembra pienamente giustificato, e può anche essere la manifestazione di una chiamata speciale che Dio ci rivolge in un momento particolare della nostra vita.

La “Dioversione” dovrebbe essere un’esperienza comune tra noi cristiani, visto che dal nostro Battesimo la Santissima Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo – abita nel nostro cuore. Mediante un movimento di “introspezione”, di ritorno a noi stessi, la nostra esperienza dovrebbe essere di profonda comunione con Dio, che “mi è più intimo di me stesso”, come diceva Sant’Agostino.

Questa constatazione per la quale la solitudine non è la cosa più profonda in noi, visto che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio e siamo stati resi partecipi dell’amore trinitario mediante il nostro Battesimo, è anche presente in una delle opere letterarie di Karol Wojtyła, diventato poi Papa San Giovanni Paolo II, “Raggi di paternità”:

“Non mi hai creato come un essere chiuso, non mi hai chiuso totalmente. La solitudine non è, di fatto, nel più profondo del mio essere, ma emerge in un punto ben preciso”.

Spesso nella nostra vita la risposta più adeguata alle situazioni e alle persone con cui abbiamo a che fare è proprio quella di tacere, di pregare e chiedere a Dio una luce, prima di dire o fare qualcosa di concreto. Ciò non significa isolamento, ma reverenza e constatazione del fatto che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio per essere di aiuto agli altri. Può essere che in certe situazioni Dio chieda davvero il nostro intervento, anche attraverso una correzione fraterna. I maestri spirituali dicono che questo non va mai fatto nei momenti di ira o esaltazione, ma quando siamo tranquilli. L’altro deve percepire che la nostra intenzione è davvero quella di auitare. Anche così, la nostra correzione può non essere ben accetta in un primo momento. Questo è stato previsto da Nostro Signore, che ha spiegato ai suoi discepoli come doveva essere effettuata la correzione in una comunità cristiana (cfr. Mt 18,15-18).

Il massimo esempio di silenzio ci viene dal Signore Gesù. Basta leggere attentamente la sua Passione per rendersi conto di come il Signore scelga i momenti per tacere e parlare, sempre in vista della salvezza di tutti, anche di quanti lo hanno crocifisso.

Dopo di Lui nostra Madre, Santa Maria, ci offre un alto esempio di silenzio. Le sue parole nei Vangeli sono pochissime, sempre reverenti e in sintonia con la volontà di Dio. Forse uno dei momenti più emblematici è quello delle nozze di Cana, passo che rappresenta una vera scuola di silenzio e di intimità con suo Figlio, manifestata in gesti e parole. Ciò che la porta a intervenire, a chiedere il miracolo, è la preoccupazione per gli sposi, propria di chi è madre e intercede a favore di tutti.

Chiediamole di aiutarci a vivere il silenzio, a sapere quando parlare e quando tacere, perché sia le parole che il silenzio siano in noi una concretizzazione dell’amore, com’è accaduto nella sua vita.

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