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Nostro figlio è morto prima di nascere, ma ha avuto il funerale. Come meritava

DONNA, MALATA, OSPEDALE

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Aleteia - pubblicato il 18/06/20

Cecilia e Marco sono due giovani sposi, hanno già due bimbi piccoli. Con una certa sorpresa e reale disponibilità al disegno di Dio sul loro matrimonio accolgono la notizia della terza gravidanza; e con grande dolore quella della sua fine, tanto prematura. Andrea, così chiamano questo bimbo che conosceranno solo in cielo, smette di vivere questa vita a sole 9 settimane di gestazione. Ma la sua mamma e il suo papà non hanno dubbi: è nato per vivere in eterno e merita amore e cura fino alla fine. Riescono, non senza difficoltà e con un aiuto provvidenziale, a celebrare il suo funerale, come avrebbero fatto per qualsiasi altro figlio. Siamo nati per risorgere in Cristo, tutti!

Di Cecilia Galatolo

“Mi dispiace, ma qui non c’è attività cardiaca…”

Quelle parole mi sono piombate addosso come una doccia gelida. Non era possibile, non riuscivo a credere che nostro figlio, ben visibile su quel monitor nella sala delle ecografie, ci avesse già lasciato. “È sicura?”, ho domandato sbigottita alla dottoressa. Lei ha detto di sì, spiegandomi inoltre che non era colpa mia: “Probabilmente c’era una malformazione cromosomica…”
Sono scoppiata a piangere. “Ma da quanto?”, ho chiesto.

“Da circa due settimane… Lo so che fa male, si vive come un lutto…”

“Perché, cos’altro sarebbe?”, avrei voluto rispondere, ma ero troppo sconvolta per la notizia.
Quel terzo figlio era arrivato un po’ inaspettatamente. I nostri due bimbi erano ancora molto piccoli, ma avevamo preso sul serio la promessa fatta il giorno del nostro matrimonio: “Ci
impegniamo ad accogliere con amore i figli che Dio vorrà donarci”. E un dono si accoglie: non si pretende, non si rifiuta. Se non c’erano motivi gravi per rimandare una gravidanza, ci piaceva farci sorprendere dal Signore.
Certamente, però, non ci aspettavamo una sorpresa del genere: che lo chiamasse alla vita per portarcelo via dopo appena due mesi, alla nona settimana di gestazione. Il pianto è continuato per un bel po’; mi hanno invitata a prendermi il tempo necessario per calmarmi e per chiamare mio marito (a causa del Covid, non gli era permesso accompagnarmi).

È stato parlando con mio marito che sono riuscita a spostare lo sguardo dal basso verso l’alto, da una morte incomprensibile alla vita eterna:

“Amore, – gli ho detto – pensiamo che il nostro bambino c’è stato e c’è ancora. Dio già lo amava, è già in Paradiso a pregare per noi. E questa morte deve avere un senso, dobbiamo solo capire cosa vuole Dio adesso…”

In quel momento, ho visto la verità in modo chiarissimo: se quel figlio era amato da noi e dal Signore, dovevo comportarmi come avrei fatto con qualunque altro mio figlio. La dottoressa mi aveva dato due opzioni: lasciare che il piccolo venisse espulso dal mio corpo per vie naturali, oppure sottopormi ad un intervento (opzione che, potendo scegliere, per i medici era meglio evitare: si trattava pur sempre di un’operazione, con anestesia).

Ma io non volevo che mio figlio scivolasse via senza che nessuno quasi se ne rendesse conto. Meritava cura, rispetto, fino alla fine. “Io voglio fare l’intervento e chiedere il funerale per il bambino…”, ho detto a mio marito. E lui è stato subito d’accordo. Prima di comunicare la mia decisione alla dottoressa, però, mi sono sentita assolutamente pazza: chi chiedeva un funerale per un bambino morto ad appena 9 settimane nel grembo materno? E devo dire che, parlando col personale sanitario, mi sono scoraggiata ancora di più: fare un funerale sembrava impossibile!
C’erano degli esami da eseguire per legge sul feto, era difficile portarlo via dall’ospedale perché era considerato solo “materiale organico”. E così, inizialmente, mi sono accontentata di un compromesso: far entrare il cappellano dell’ospedale per dare una benedizione al mio piccolo il giorno dell’operazione.

Ma mio marito non si è arreso: ha insistito perché potessimo scegliere noi come salutare il nostro bambino e ha chiamato le pompe funebri. Sono stati gli addetti delle pompe funebri a dirci che per legge era possibile. Si sono informati, hanno ottenuto tutti i permessi necessari dal comune, dal distretto sanitario, dal reparto. Hanno speso 3 giorni di lavoro per noi, perché fosse esaudita la nostra richiesta (senza farci pagare nulla, se non la cassettina in legno pregiato in cui lo avrebbero riposto: ci hanno regalato l’intero servizio funebre!). E così, mi sono sottoposta all’operazione. Tutto, provvidenzialmente, è andato secondo i piani.

La cerimonia funebre si è svolta sabato 13 giugno: giorno in cui ricorre l’anniversario della nascita in Cielo di Chiara Corbella. Ci è sembrata una coincidenza bellissima, visto quanto eravamo legati a lei e al suo modo di guardare la vita. Spesso mio marito mi diceva: “Parli troppo di Chiara tu, secondo me il Signore ti chiederà qualcosa di simile, prima o poi…”. In cuor mio pensavo: “Speriamo di no…”, ma poi aggiungevo: “Quello che vuoi tu Signore, basta che mi dai la tua grazia”. E posso testimoniare che la grazia in questa croce non è mancata, anzi. Mi sono stretta a Dio, come poche altre volte nella vita. Il giorno del funerale, davanti alla piccola bara bianca di Andrea (così lo abbiamo chiamato) ci siamo commossi.

Era tutto così reale, aveva un nome, un cognome. Aveva un corpo, piccolo come una noce, ma destinato alla Resurrezione nell’ultimo giorno, proprio come i nostri. E proprio noi gli avevamo già donato la vita! Era toccante vedere quella bara bianca a due metri dal tabernacolo. Mi sembrava un dono immenso che mio figlio fosse davanti a Cristo, invece che in un inceneritore. Pochi giorni prima di scoprire che Andrea non c’era più, avevo chiesto una cosa al Signore: che mi mostrasse quanto amava i bambini ancora non nati. Incredibile che avesse deciso di rispondermi non tanto con una pagina di Vangelo, con la frase di un santo, con un’ispirazione, ma con la vita stessa di mio figlio.

Una vita breve, “con dei difetti”, ma già assolutamente unica, preziosa, irripetibile. E se lo amavo io, che ero solo una persona imperfetta, piena di limiti, quanto poteva amarlo Dio? “Vedrai che la prossima volta andrà meglio”, mi avevano detto per consolarmi. Ma in che senso sarebbe dovuto andare meglio la prossima volta? Intendiamoci: perdere un figlio è un dolore immenso. So di cosa parlo, ora. Ma mentre gli stavamo dicendo “Addio” pensavo che il nostro bambino non era stato un fallimento, un errore della natura da dimenticare. Perché lui era esistito e sempre sarebbe esistito. Dio lo aveva creato per l’eternità. 

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