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Allattamento, co-sleeping and more: domande e risposte

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Martha, Mary and Me - pubblicato il 06/07/20

Sempre molto informata e con tante letture da consigliarci, abbiamo tempestato di domande la nostra ostetrica Rachele Sagramoso, che, essendo anche una super mamma di famiglia numerosa, ci porta tanto del suo vissuto e delle sue utilissime fonti, per venire al nodo di alcune questioni davvero spinose e di pratiche più o meno dubbie nella gestione pratica dei figli. Se ne avete altre, gliele gireremo volentieri!

Co-sleeping sì o no? Non si può dire che non sia comodo per la mamma, nonostante ciò venga demonizzato da molti in quanto questo attaccamento notturno impedirebbe al bambino di imparare a dormire da solo, limitando la sua autonomia.Ecco che bambini piccolissimi, anche di 4 o 5 mesi vengono spostati nelle loro camerette. Cosa ne pensi?

Una bella domandona diretta e spiccia: benissimo, tenterò di essere diretta anche io. In realtà dovremmo fare una distinzione iniziale tra co-sleeping e bed-sharing: il primo significa dormire nella stessa stanza, il secondo, invece, vuol dire che si divide la medesima superficie per dormire. In moltissime culture non solo è ben accetto il co-sleeping (comodo per badare a bambini, malati e anziani), ma si dà per scontato il bed-sharing (tra genitori e bambini, ma anche tra nonni e nipotini, fratelli…). È piuttosto recente la separazione tra il sonno dei genitori e quello dei bambini: in passato solo l’aristocrazia occidentale disponeva dell’obbligo del sonno separato per consentire alle donne di non allattare(si usavano le balie e, dopo, le istitutrici) e stare dietro agli affari di palazzo, quindi – se pur le idee pedagogiche che imponevano il distanziamento tra madre e bambino fossero diffuse solo tra chi sapeva leggere libri e poteva permettersi balie e istitutrici – solo recentemente si è tentato/si tenta di tenere lontani i bambini dalle madri, ma tali indicazioni sono disattese da alcuni aspetti:

  • La fisiologia dell’allattamento: i bambini sono “progettati” per aver bisogno di mamma per anni, di solito i primi sette. Questa informazione ci arriva da osservazioni e studi che sono stati fatti da antropologi di tutto il mondo e che hanno girato tutto il mondo, paragonando il comportamento di bambini di tutte le culture possibili (si pensi ai testi di chi poi ha diffuso tali osservazioni: SheylaKitzinger, Carlos Gonzales, James McKenna e molti altri) e da neonatologi/pediatri/ginecologi che hanno studiato approfonditamente l’allattamento materno e il comportamento di neonati e bambini. Basta informarsi leggendo testi passati e recenti sull’allattamento: tutti i testi de La Leche League(di recente è stato revisionato e ripubblicato “L’arte dell’allattamento materno”), per esempio, spiegano con attenzione come il bisogno di poppare sia nutritivo/alimentare, ma anche nutritivo/psicologico e, se vogliamo essere audaci, nutritivo/spirituale.
  • La fisiologia del sonno infantile: largamente sconosciuta in occidente e cautamente messa da parte insieme a quella dell’allattamento, anche per obbligare le donne a lavorare (si legga l’articolo “Il marketing dei sostituti del latte materno” di Adriano Cattaneo e il testo “Sotto il camice niente?” di Lucio Piermarini), la fisiologia del sonno infantile è stata stropicciata in tutti i modi sino ad affermare che i neonati hanno attrazione erotica per la madre e che allattare o dormire con un bambino incrementa la sua libido, fino a che illustri ricercatori di tutte le branche coinvolte nello studio infantile non hanno fermato queste calunnie antiscientifiche definitivamente. Non è un caso che le pubblicazioni sul sonno infantile si distinguano tra quelle dei cosiddetti “esperti” che forniscono un metodo per far dormire il neonato – i cui testi, che sono commerciali, insegnano ai genitori come comportarsi coi propri bambini (di solito sono privi di bibliografia, includono indicazioni chiare e poco flessibili, “minacciano” i genitori di indurre comportamenti sbagliati nei figli se non applicano le regole proposte) – e le pubblicazioni scientifiche spesso multidisciplinari – i cui testi sono formativi/informativi e lasciano i genitori liberi di optare per ciò che ritengono corretto (ovviamente portano moltissima bibliografia) -. Un paio di tali testi possono essere: “I cuccioli non dormono da soli” di Alessandra Bortolotti, “Genitori di giorno e di notte” di William Sears, BesameMucho di Carlos Gonzales, “Di notte con tuo figlio” di James McKenna e “Sogni d’oro” de La Leche League.
  • La teoria dell’attaccamento: iniziata da John Bowlby e portata avanti da numerosissimi esperti (Donald Winnicot, Alice Miller, Mary Ainsworthe altri) tale teoria oramai accettata dal mondo psicologico/pedagogico, attribuisce al bisogno di stare con la madre e gradualmente scoprire il mondo, un modo fisiologico che il bambino possiede per crescere formando la propria autonomia gradualmente. Gli scritti di Massimo Ammaniti e Giampaolo Nicolais, ad esempio, spiegano molto bene come l’attaccamento sia fonte di profonda maturazione nel bambino e corrisponda a un fisiologico raggiungimento dell’autonomia fisica e psichica (si leggano Il bambino capovolto di Nicolais e Il mestiere più difficile del mondo di Ammaniti). Il team di esperti italiani sull’argomento sono gli psicologi psicoterapeuti del Progetto Pioneer e un testo estremamente interessante, divulgativo ma scientifico e “dalla parte dei genitori” è senz’altro “100.000 baci”. “L’educazione affettiva e sessuale in famiglia” di Miriam Incurvati e Giovanni Petrichella.
    Torniamo quindi a noi: “Co-sleeping sì o no?” Se per i genitori non è un problema, il co-sleeping e il bed-sharing (che però devono possedere alcune misure di sicurezza) sono una risposta al fisiologico bisogno di contatto che il bambino possiede dalla nascita.
    “Non si può dire che non sia comodo per la mamma, nonostante ciò viene demonizzato da molti in quanto questo attaccamento notturno impedirebbe al bambino di imparare a dormire da solo, limitando la sua autonomia”: tale demonizzazione è incontrovertibilmente errata dal punto di vista scientifico, quindi – in linea di massima – è vero il contrario, rispondere a un bisogno di contatto (notturno e diurno) del neonato/bambino, aumenta la maturazione dell’autonomia. “Ecco che bambini piccolissimi, di anche soli 4 o 5 mesi vengono spostati nelle loro camerette. Cosa ne pensi?“: il sonno della famiglia è estremamente personale e non sarò certo io a mettere il naso nelle camere da letto di tanti genitori. Mi limito a informare le mamme e i papà che i bambini di solito chiedono di dormire con i genitori sino a un’età di tre anni circa e poi, piano piano, possono essere aiutati a dormire in cameretta sino al raggiungimento della completa autonomia e aggiungo solo che prima di compiere qualsiasi scelta sul sonno familiare, mamme e papà possono scorrere testi molto chiari da cui possono trarre tutte le informazioni possibili e immaginabili per poter optare per quello che sta meglio per il loro sonno. Personalmente io suggerisco “Sogni d’oro” de La Leche League.
    Per quanto attiene articoli interessanti, ci sono i seguenti:
  • I bambini che dormono hanno bisogno della mamma accanto a loro, a cura del dott. James J. McKenna.
  • Gli scienziati sostengono che dormire con i tuoi figli fino a quando non si addormentano è buono per loro e può ridurre i problemi di salute mentale.
  • Studio: più una madre allatta al seno, più sensibile è verso le esigenze di suo figlio più avanti nella vita.
  • Condivisione del letto e allattamento al seno: The Academy of Breastfeeding Medicine Protocol # 6, Revision 2019.
  • Le coccole lasciano tracce nei geni dei neonati.

Sempre sul discorso nanna, gli stessi paladini dell’autonomia del bambino sostengono che questo dai 5-6 mesi sia in grado di dormire tutta la notte senza l’esigenza di mangiare. Anzi succhiare il seno sarebbe controproducente. Primo perché il bimbo deve imparare la differenza tra giorno e notte (quando si mangia e quando si dorme) e secondo mangiare latte favorirebbe soltanto i risvegli notturni in quanto manterrebbe attivo lo stomaco, cosa del tutto superflua. E’ vero?

In realtà non so come rispondere in modo più chiaro: no, non è assolutamente vero. È vero casomai il contrario: a parte il discorso meramente alimentare, ricordo che la fisiologia del neonato è tutt’altra e risponde ai bisogni di maturazione psicofisica e affettiva. La realtà scientifica è casomai completamente diversa: i risvegli notturni sono fisiologici. Aggiungo che succhiare il seno protegge il bambino dal pericolo di SIDS (anche in questo caso basta la lettura di testi come “I cuccioli non dormono da soli” di Alessandra Bortolotti).

Si fa un gran parlare di nido e della sua funzione sociale. Conosco mamme che mandano il figlioletto al nido nonostante stiano a casa. Non entro nel merito di scelte personali, ci possono essere mille motivi per cui i genitori decidono di mandare al nido il figlio mi chiedo solo se la motivazione “perché cosi interagisce con gli altri bambini” sia la più giusta. E’ davvero così? E’ fondamentale far vivere al bimbo fin da piccolissimo questa esperienza di socializzazione?

Giustissimo non discutere scelte altrui, ci mancherebbe altro. Possiamo limitarci a dire che il processo di socializzazione, che è differente da bambino a bambino, matura con l’andare del tempo a partire dal momento in cui il bambino comprende che mamma non lo abbandona, che è interessante scoprire che ci sono altri bambini coi quali giocare e che ci si può affidare ad altri adulti sino a che mamma (o papà) non torna. La socializzazione non è così fondamentale in bambini così piccoli e sono loro a farcelo capire attraverso numerosi segnali: ecco perché personalmente, se è possibile scegliere, io suggerisco alle mamme di capire se il loro bambino è maturo abbastanza per il nido: non tutti lo sono in egual modo e nel medesimo momento. Uno dei testi migliori sul mercato è certamente “Poi la mamma torna” di Alessandra Bortolotti, mentre un testo molto interessante sull’argomento è “Contro gli asili nido” di Paola Liberace. Giusto per fornire un’informazione completa, il testo “Allattare e lavorare si può” de La Leche League è denso di suggerimenti importanti per chi allatta e deve tornare al lavoro.

Una delle cose più difficili da eliminare, almeno per me è la faccenda del “ricatto” nell’educazione: fai questo oppure non mangi quello, mangia quello altrimenti non vai lì…ci sono buone pratiche o anche linguaggi che possono aiutare a superare questo schema così “facile”, spesso troppo, da proporre? E’ davvero deleterio o ci sono casi in cui è possibile utilizzarlo?

Ovviamente cadere nel tranello della comunicazione ricattatoria è molto semplice (la più pericolosa è quella affettiva: “Mangia altrimenti la mamma soffre”) : stanchezza e frustrazione la fanno da padrone e spesso ci sono talmente tante situazioni da gestire, che appare insormontabile il problema di come ci si può relazionare col bambino. Personalmente io tendo a fidarmi poco di tecniche comunicative prefabbricate perché non tengono conto delle diverse personalità dei genitori e del bambino, ma a volte imparare qualche tecnica comunicativa che non infligga pesantissimi studi per affinarla, esiste. Per esempio i corsi del Metodo Gordon (dal testo “Genitori Efficaci” di Thomas Gordon) sono molto interessanti e i testi di Jesper Juul (“Il bambino è competente” e “I no per amare”, ad esempio) e di Adele Faber e Elaine Mazlish (“Come parlare perché i bambini ti ascoltino, come ascoltare perché ti parlino” e “Come parlare perché i ragazzi ti ascoltino, come ascoltare perché ti parlino”) sono testi intelligenti e che lasciano libere le persone di adattare a loro stesse i piccoli suggerimenti forniti.
Una nota a margine dopo tanti incontri con genitori di bambini dai 3 ai 10 anni: mai come oggi i genitori non si sentono capaci di affrontare il loro ruolo. Dire un “No!” è un delitto, richiamare un bambino ai suoi doveri e ai piccoli compiti che si possono imparare e condividere in casa non è un dramma, aiutarlo a superare le frustrazioni facendogliele sperimentare non è un crimine, lasciare che il bambino risolva da solo le proprie problematiche di relazione coi pari o con gli altri adulti senza sostituirsi a lui, ma ascoltandolo e guidandolo, non è un misfatto. I risultati educativi della mancanza di una genitorialità educante sono sotto gli occhi di tutti: vediamo attorno a noi una generazione di adolescenti impauriti e tristi e una generazione di genitori che temono di esserlo in tutte le connotazioni negative (che sono di solito contestuali al ruolo educativo). Il mio messaggio è molto semplice e suona magari già sentito: non abbiate paura. Una volta informati e liberi di compiere scelte, la maggior parte dei genitori è competente. La maggior parte dei genitori (indipendentemente dall’età), una volta fatto sentire in grado di sentirsi responsabile, è in grado di esserlo.A volte basta solo un’iniezione di coraggio e un po’ di sostegno: qualcuno che dica loro che è difficile, ma ehi! È bello!




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Oggi c’è una condanna del “capriccio” che viene etichettato spesso come un linguaggio diverso con cui il bimbo esprime un bisogno. È vero che i capricci non esistono più (almeno come li intendevamo una volta)? Come comportarsi. Ci sono casi in cui il lasciar piangere può aiutare? Un genitore, qualche volta, può per stanchezza o perché è una giornata no, decidere di non impegnarsi e accondiscendere al capriccio? O è sempre deleterio?

Io sono in sintonia con questo articolo di Giorgia Cozza.

Innanzi tutto “lasciar piangere” è una cosa differente dal “consentire di piangere”: la prima opzione è sinonimo di abbandono e non aiuta nessuno, adulto o bambino che sia. Piangere da soli quando si è in preda alla sofferenza, è terribile per tutti. Chiunque soffre ha bisogno di essere accolto, amato, ascoltato: a maggior ragione un bambino e a maggior ragione se lo scopo dell’abbandono al pianto possiede scopi educativi. Nessuna sofferenza educa.




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La seconda opzione – consentire di piangere – è invece un’altra cosa: i bambini piangono. So che può apparire un’ovvietà, ma occorre ribadirlo allorché, sin da quando il neonato viene al mondo, si cerca di evitare che pianga cercando soluzioni a problemi che spesso non esistono (pensiamo alle coliche: solo in occidente sono un problema, in altre culture si consente l’accesso al seno e il contatto sapendo che l’adattamento alla vita fuori dal ventre materno è un gran lavoro) oppure tentando di far tacere un bambino perché non ci si sente in grado di accoglierlo o di accompagnarlo alla risoluzione di una frustrazione (pensiamo all’abuso del cellulare fin dalla più tenera età: serve per far star zitto un bambino). I bambini piangono e spesso è perché hanno una necessità: può essere una di quelle cose che si possono/debbono evitare e allora bisogna imparare a guidare il bambino fino all’accettazione di un “no” (talvolta, a seconda dell’età, il “no” va affermato e il pianto conseguente consolato, ma è importante essere certi che quel “no” sia dato con dolce fermezza: pensiamo alla sicurezza, ad esempio), altre volte sono veri e propri bisogni che vanno accolti e vanno comunque inseriti in una relazione comunicativa genitore-figlio (si pensi a quei momenti di pianto convulso che spaventano e imbarazzano, quando il bambino ha due anni: talvolta siamo noi adulti che pretendiamo dal bambino un comportamento, oppure spesso il pianto è davvero solo un bisogno di affetto e relazione).
Fare i genitori è stancante, ma purtroppo al bambino interessa relativamente se il genitore si è stancato sul lavoro: è importante imparare che mamma e papà possono anche avere momenti di stanchezza, ma non è automatico che venga sempre accettato e che sia giusto che il bambino lo accetti (come un coniuge, del resto). I bambini hanno quantitativamente bisogno di relazionarsi coi genitori, che questo sia chiaro. Una volta si diceva che se un genitore stava poco tempo coi figli, ma ci stava “bene”, era quasi meglio rispetto a un lasso di tempo più lungo. In realtà i figli crescono avendo bisogno di relazionarsi coi genitori sia quando i genitori sono abbattuti o stanchi, sia quando stanno bene e sono rilassati. Se un bambino ha meno di cinque/sei anni è importante capire e accettare che quando un genitore torna a casa, egli ha bisogno di condividere del tempo insieme a questi. E spesso questo significa addossargli lo stress del fatto di essere stato senza mamma e/o papà, quindi piangere e “fare i capricci”. Questo momento, che può essere frustrante, è però sintomo del fatto che il bambino ha davvero bisogno di quel momento, di quella persona importante (capita anche a noi: se abbiamo avuto dei problemi sul lavoro, quando arriva il coniuge glieli riversiamo addosso, l’unica differenza è che noi possiamo modulare il modo in cui farlo, un bambino, no). Lì entrano in gioco tanti fattori, tra i quali il fatto che il nervosismo è “contagioso”. Più un adulto respingerà o rifiuterà quel momento della giornata trasmettendo emozioni negative, più il bambino assorbirà e vivrà una difficoltà. Entrano in gioco tante piccole soluzioni: l’aiuto del coniuge o di un parente che può tentare di “stemperare” distraendo il bambino e accogliendo la stanchezza del genitore, oppure il trovare un momento – tra il termine del lavoro e il ritorno a casa – per far “respirare i neuroni” e ricaricarsi qualche istante (a volte due chiacchiere con un amico magari nel tragitto verso casa, sono un salvavita). Sul fatto di cedere al capriccio non mi dilungo: si può concedere qualcosa che in seguito è possibile contrattare (un biscotto prima di cena, ad esempio), ma è importante capire bene cosa vuol dire quel capriccio. E Giorgia Cozza ce lo spiega molto meglio di quanto possa fare io.

Quando arriva un fratellino, è bene apportare i cambiamenti a casa prima che questo arrivi? Tipo cambio di letto o cose simili? Oppure spiegare al bimbo una volta che arriverà il nuovo? E davanti alla così detta “regressione” tipo tornare a volere la tetta dopo aver smesso o a gattonare, come è bene comportarsi?

Personalmente io sono una mamma molto pigra e questo ha un certo vantaggio, ovvero non mi aspetto nulla per quando arriva un nuovo fratello: semplicemente lascio che accada e poi prendo alcune decisioni. Molto dipende dall’età del bambino più grande e se penso che sia in grado di capire e accettare cambiamenti improvvisi: dopo i quattro anni è più semplice, approfittando dei mesi della gravidanza, spiegare che potrebbe cambiare qualcosa nell’organizzazione dei tempi familiari, prima di tale età c’è bisogno di accortezze e molta delicatezza.
Circa quella che viene chiamata “regressione”, io l’ho notata una volta sola, ovvero quando ero in attesa del secondo figlio: ero molto spaventata dalle richieste di mia figlia che aveva già raggiunto alcuni traguardi di autonomia, ma fu colpita da una “neonatite” acuta. Succede spesso, specialmente prima dei tre anni, che il figlio più “grande” abbia una modesta fase di questo “disturbo” che mette in crisi i genitori: in realtà molto sta nell’accoglimento di questa fase, come di molte altre che il bambino mostrerà crescendo. La maturazione di un bambino non è regolare ma possiede fasi in cui ha bisogno di fermarsi, tornare indietro, poi magari avanzare a grandi falcate e “stare fermo un giro”. Ecco, l’arrivo di un fratello più piccolo può essere uno di quei momenti. È ovvio, però, che le mamme che possiedono più di tre bambini, siano meno colpite da momenti di scoraggiamento – comprensibilissimi – dovuti all’arrivo di un nuovo membro della famiglia e, come sempre accade, una volta che si capisce come agire in questi casi, i meccanismi sono spesso simili (con la libertà che ogni personalità possiede). Aver bisogno di ricevere attenzioni e delicatezze che da mesi il bambino “grande” (a volte si parla di bambini di un’età inferiore ai tre anni: definirli “grandi” fa sorridere, in quanto sono incontrovertibilmente anch’essi piccolini) non richiede più (assaggiare di nuovo la poppa anche se si è smesso di ciucciare tempo addietro oppure condividere di nuovo il lettone, oppure volere di nuovo il biberon o il pannolino), ritengo sia comprensibile. Talvolta i genitori sono turbati da queste richieste che, però, hanno una durata breve e – a seconda dell’età – possono essere modulate con calma per poi “ritornare in carreggiata”.
Quando poi a un secondo bambino se ne aggiungono altri, anche i genitori comprendono che poi non è un problema ospitare un po’ qualcuno di affranto e bisognoso di coccole nel lettone, oppure preparare di nuovo un biberon: fa parte un po’ della vita e chissà in quante circostanze accadrà, nell’arco della crescita.
L’ascolto e la propensione a capire cosa si può fare per rassicurare il fratello più grande, può aiutare, mentre scegliere una linea comune su quali accorgimenti avere con i figli, è una buona opzione che la coppia genitoriale può avere. È importante scegliere insieme cosa si è disposti ad accettare e cosa no, mantenendo sempre un po’ di morbidezza verso chi vive il momento di difficoltà. Tornando alla mia modestissima esperienza di mamma posso dire con certezza che, come per altre tante situazioni che si possono vivere da genitore (ripenso alla questione “capricci”), molto sta nel viverle con serenità: nessun bambino dorme coi genitori fino all’età adulta, nessun bambino vive una fase neonatale per anni, nessun bambino poppa al seno per decenni e tutti, ma proprio tutti, diventiamo adulti. Il nodo della faccenda è che il rispetto dei bisogni di tutti (genitori e bambini) è importante per tutta la famiglia, mettendo in conto che più una persona è piccola, meno è in grado di capire. Ricordiamoci sempre che è solo da qualche decennio che le mamme e i papà, anche per causa di una nuclearizzazione familiare e uno slittamento degli anni nei quali si diventa genitori, hanno difficoltà coi figli: in passato le famiglie erano più grandi e le fasi di crescita degli individui erano vissute con più serenità. Oggi le mamme sono spesso sole, debbono affrontare sole le fasi di crescita dei figli, sono mediamente meno abituate ai bambini, hanno un’età molto matura al primo figlio, debbono tornare a lavorare nel più breve tempo possibile. Tutto questo non incrementa positivamente la maturazione delle relazioni in modo graduale e spontaneo, ma obbliga tutta la famiglia a seguire degli step che costringono bambini e adulti a vivere una vita fatta spesso più di fatica e stanchezza, che di sacrifici e gioia. E questo è triste.

Un testo molto carino sulla “fratellanza” è Benvenuto fratellino, Benvenuta sorellina” di Giorgia Cozza.

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