Un anno fa, proprio in questi giorni, mi sono specializzata in psicoterapia e l’abbraccio era l’argomento della mia tesi.
Me lo aveva “suggerito” una paziente, e ora un’altra persona me lo ha fatto tornare in mente, così ho pensato di pubblicare un articolo per raccontare, pur molto sinteticamente, che cos’è un abbraccio e soprattutto perché è un lusso che non tutti riescono a concedersi.
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Se è vero infatti, come scritto in molti articoli sia scientifici che divulgativi, che il contatto e l’abbraccio sono fonte di benessere per una serie di motivi, e molto si legge sull’importanza che questo linguaggio del corpo riveste per i bambini e non solo, è altrettanto vero che non tutte le mamme abbracciano, o per lo meno non tutte nello stesso modo, non tutti i bambini abbracciano, non tutti gli adulti abbracciano e si lasciano abbracciare, e infine, non tutti gli abbracci sono uguali. Vediamo allora insieme qualche spunto di riflessione. Prima di proseguire però ti domando: qual è l’ultima volta che hai abbracciato qualcuno? Chi ha preso l’iniziativa? E se pensi alla tua storia, quali sono gli abbracci più significativi? Puoi pensare a quelli dati e non dati, a quelli ricevuti e a quelli mancati. E ancora, come ti senti nell’offrire o ricevere un abbraccio? Al sicuro e rilassato o a disagio e teso?
Se ti sei soffermato a pensare immagino che ti si sarà aperto un varco sulle tue relazioni più importanti e sulla tua “capacità” di cercare vicinanza nelle situazioni in cui ne senti il bisogno. Non tutti infatti siamo uguali da questo punto di vista, e ciò dipende dal nostro stile di attaccamento, cioè dal legame che da piccoli, soprattutto nei primi due anni di vita, abbiamo co-creato con la nostra figura di attaccamento principale, con chi cioè si prendeva cura maggiormente di noi.
Immaginate di essere un neonato di pochi mesi, e di sentire il bisogno di essere vicino a vostra madre. Cosa farete? Attiverete il vostro corpo per richiamarla con la voce, per allungare le braccia verso di lei, o per spostarvi gattonando nella sua direzione, se avete già qualche mese in più.
George Downing chiama schemi affettivo-motori di connessione questo tipo di “attività” da parte del bambino e sottolinea quanto questi semplici gesti fatti con il corpo siano invece di fondamentale importanza perché attraverso queste esperienze corporee il bambino apprende due cose: la prima è rispetto agli altri, cioè quanto l’altro, la madre in questo esempio, sia raggiungibile, cioè sia disponibile verso di lui, quanto sia disposto o meno a interagire con lui, a capire e raccogliere le sue intenzioni ed emozioni; la seconda cosa che impara riguarda se stesso e cioè quanto egli sia capace di effettuare un “collegamento” con un’altra persona, quanto si senta sicuro nel ricevere una risposta positiva o meno.
Quanto più si ripeteranno episodi in cui il bambino attiva questi schemi, ma l’adulto non risponde adeguatamente, tanto più il bambino interiorizzerà un’immagine di sé come poco efficace nel connettersi e un modello dell’altro come poco disponibile.