«Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale.
Prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Marco Cappato aveva rilasciato una dichiarazione spontanea: «Abbiamo fornito un aiuto innegabile in assenza di qualunque parametro di legge. Abbiamo aiutato Trentini in base ad un dovere morale e lo rifarei esattamente nello stesso modo. Alla corte vorrei ricordare che, dalla morte di dj Fabo e di Trentini, altre decine di persone si sono recate in Svizzera per il suicidio assistito e le autorità italiane ne sono state informate da quelle elvetiche. Nessun procedimento penale, però, si è aperto. Quelle persone non hanno avuto bisogno di noi, perché avevano i soldi per farlo. Ma questo non può essere il discrimine tra malati che soffrono».
Non può esserci differenza fra chi si può permettere l’ultima scelta e chi no, questo sembra confermare la sentenza.
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Dj Fabo, caso di "suicidio assistito", che ha diviso l'opinione pubblica. Il pronunciamento della Corte Costituzionale Su questa sentenza incide il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2019 , che così ha stabilito:
«Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (La Stampa, 27 luglio ).
Le condizioni per l’assoluzione Con questo provvedimento, l’assistenza al suicidio non può essere punita quando il malato che la chiede: è tenuto in vita da presidi di sostegno vitale, è affetto da una patologia irreversibile che sia fonte di sofferenze fisiche e psichiche da lui ritenute intollerabili, ancora è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, e già è stato inserito in un ciclo di cure palliative. Condizioni tutte presenti in Trentini, a eccezione – almeno così sembrava – di una sostanziale: la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, come per esempio la ventilazione assistita.
Ed era proprio su questo aspetto che si era concentrato il consulente di parte, l’anestesista Mario Riccio, salito alla ribalta nel 2006, quando aveva staccato i macchinari a Piergiorgio Welby: per lui, la terapia farmacologica (contro i dolori e gli spasmi) e meccanica (per l’evacuazione delle feci) costituivano una terapia di sostegno vitale, in grado dunque di determinare l’assoluzione degli imputati (Avvenire, 27 luglio ).
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L’attacco di Tempi: questa giustizia fa paura Il mondo cattolico come ha risposto alla sentenza Trentini? In modo più “timido” del solito. Ad eccezione di pochi giornali, per ora le reazioni sono centellinate.
Scrive Tempi.it (28 luglio) : «Trentini non dipendeva da macchinari per vivere, ma è bastata la consulenza di parte dell’anestesista Mario Riccio (lo stesso implicato nel caso Welby) per affermare che terapia farmacologica e meccanica fossero terapie di sostegno vitale e così aggirare le limitazioni della Consulta. Voilà, il gioco è fatto e c’era da aspettarselo. Ma ciò che colpisce maggiormente è, ancora una volta, il superamento delle leggi in nome non del diritto, ma di un leggiadro e vaporoso riferimento a qualcosa di impalpabile: il “nobile intento”, appunto, che non è un atto, un fatto, ma un proponimento, un’aspirazione. Come si misura un intento? Chi è il giudice degli intenti? Di una giustizia così c’è da avere paura».
La fede del “secondo me” di Mina Welby Il giornale cattolico interviene duramente anche su Mina Welby che aveva ribadito di aver agito in nome della propria fede cattolica.
«Non è la prima volta che Mina Welby fa riferimento alla sua fede cattolica per giustificare i suoi atti – ribatte Tempi – Anche la madre di Trentini in un’intervista al Corriere spiegò di essere «cattolica praticante» e di sostenere la scelta del figlio. Curioso. Curioso che in un mondo dove nessuno parla della propria fede per spiegare i propri atti, gli unici a rivendicarla sono coloro che compiono azioni in aperto contrasto con la fede che dicono di professare. Come la giustizia è diventato un “secondo me”, a prescindere da tutto, così anche la fede si è ridotta all’impeto dei propri soggettivi sentimenti, a prescindere da quel che recita il quinto comandamento, l’insegnamento della Chiesa, il catechismo. Anche di una fede così c’è da avere paura» .
Avvenire: la smania di assolvere ad ogni costo Per Avvenire (28 luglio) «le abbiamo chiamate così tante volte “sentenze creative” che la cosa sembra non avere più senso. Bisogna forse cominciare a parlare di strategia per la “creazione di sentenze” con stesso letale fine ideologico». Così pure nel caso Trentini.
«La legge – scrive il quotidiano della Cei – fissa un principio (qui che il suicidio è tragedia da non incentivare), la Consulta indica i limiti interpretativi della norma, eppure spunta sempre qualche giudice che svuota la legge e smonta anche i paletti della Corte costituzionale. La smania di condannare è madre di ingiustizia, come la smania di assolvere a ogni costo».
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