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La scintilla del lunedì – Porta pazienza

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Annalisa Teggi - pubblicato il 21/09/20

Quando un uomo fa un sacrificio, si sbarazza di un pezzetto del peso che ha dentro.

Porta pazienza, me lo sono detta molte volte questa settimana mentre compilavo infiniti moduli per le scuole dei miei figli, o mentre vedevo gente perdere le staffe nelle code al supermercato. La pazienza si porta, infatti. Ed è un patire, ci ricorda l’etimologia. Mi torna in mente un racconto di mio nonno che ha combattuto in Albania durante la Seconda Guerra Mondiale: diceva che il mulo era la presenza più importante nel loro gruppo di soldati; portava le armi e le vettovaglie, immaginare che venisse ucciso era una catastrofe. E descriveva questo animale forte e mite che si inerpicava su per i sentieri, carico della sua soma fino allo stremo.


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Portava la pazienza, cioè pativa e saliva. Silenzioso, docile, essenziale. Ed era una benedizione presente per quei giovani uomini in mezzo alla guerra.

La pazienza non è tacere; non è l’ignavia di chi trattiene tutto dentro per non creare problemi. E la differenza sta proprio nel peso, quello buono fa fare fatica ma non schiaccia. In un romanzo che sto leggendo è scritto:

Quando un uomo fa un sacrificio, si sbarazza di un pezzetto del peso che ha dentro.

Il vero peso opprimente che ci logora non viene da fuori, lo abbiamo già dentro, sono i mille strati accumulati di ira, invidia, disperazione, rancore. La pazienza, se è sacrificio, può essere la salita che ci sbarazza di un po’ di zavorra intima, sudando dentro la quotidiana fatica.

La pazienza si porta e forse può essere una porta. In che senso? Uscire dal recinto di noi stessi ed entrare nella realtà è patire, cioè sentire l’urto di qualcosa che è sempre fuori dagli schemi di ciò che vorrei e mi aspetto. La realtà è dove Dio ci chiama, perché l’incubo peggiore per ciascuno di noi non è che possano accadere cose brutte, ma che nulla accada. La pazienza è quella porta che si apre quando decido di uscire dal castello solitario del mio ego, dove nulla accade e quindi nulla può cambiare, per entrare lì, dove il presente mi fa fare una ginnastica liberante di fatiche e se queste fatiche sono fatte sacre, cioè diventano sacrifici, allora i pesi che annebbiano l’anima si sciolgono un po’, si scalfiscono. Dunque ricordo a me stessa: non dire solo «porta pazienza», ma «chissà dove mi porta la pazienza …».

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