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La storia di Fred: nella baraccopoli di Kibera, la vita sa essere più forte

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Anna Raisa Favale - pubblicato il 17/11/20

Un ex calciatore professionista ha fondato una ONG, “Green Card”, che insegna il fair play nella vita, innanzitutto, attraverso lo sport

Fred cambia strada, si tuffa nei vicoli.
Lasciamo la main road di Kibera, la strada del mercato, delle macchine e del chiasso, e lo seguiamo nel buio.
Sono così strette, le strade, a Kibera, che tra una parete di lamiera e l’altra, il sole quasi non si vede e la luce è poca, fievole e scostante.
Intravediamo un orizzonte incastrato in centinaia di cavi sospesi tra una casa e l’altra, per una corrente elettrica arrivata solo in certe zone e solo poco tempo fa – mentre camminiamo calpestando spazzatura, attenti a non finire nei rivoli di acqua nera, densa e putrida, tra il fango e le carcasse degli uccelli morti.
Giriamo l’angolo, Fred indica una porta – è tutto colore della terra – e adesso è chiusa da un lucchetto. “Questa era casa mia”, ci dice.
Quattro fratelli, orfani di padre, e una giovane madre che per sopravvivere vendeva foglie di verdura sulla strada del mercato, tutti insieme in una stanza bassa di tre metri per due, dove lui studiava a lume di candela e cresceva in fretta.

Siamo imbranati, noi, marziani in un mondo che non ci appartiene. 
Lui, al contrario, incede forte e sicuro. Quelle strade, tutte uguali al nostro sguardo, lui le conosce a memoria. La gente che ci passa accanto, camminando nella direzione opposta, ci guarda.

Qualcuno è interrogativo, qualcun altro annoiato, quasi ostile. Siamo bianchi e stiamo filmando. Abbiamo chiesto a Fred di portarci dentro il suo passato, per poter capire meglio il suo presente, ma mista ad una grande voglia di vedere e raccontare, c’è perplessità, c’è domanda e c’è paura, quasi.

Poi arriviamo al primo slargo di case. E c’è la vita.
Un bimbo sta facendo il bagno in una vasca al limitare di una casa di fango. La madre sta lavando i panni. Bambini giocano a pallone. Fred gli passa accanto ed è una star, impazziscono di gioia, lo implorano di dare due calci al pallone.

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Anna Raisa Favale

In queste strade, Fred è un bambino che ce l’ha fatta.
Un ragazzino che aveva un sogno, ed è riuscito a realizzarlo. Calciatore professionista appena ritirato, in un paese dove il calcio non ti rende ricco, come in altri posti del mondo, ma sicuramente ti fa uscire da Kibera, e ti consente di vivere, almeno per un poco, almeno finché dura.
Mi ricordo che a fine partita ci portavano a mangiare al Mc Donald” – mi dice – “Quella era la cena della vittoria”.
Continuiamo a camminare, raggiungiamo un campo di pallone, e poco distante l’ufficio di Fred.
Dopo la carriera nel calcio, ha deciso di fondare una ONG, “Green Card”, che insegna il fair play nella vita, innanzitutto, attraverso lo sport.
“Molti dei miei amici sono morti, di crimine o di droga. Qui le prospettive non sono tante, e ci vuole un attimo a venire incastrati.
Spesso mancano le cose basilari – ci sono ragazze che si prostituiscono per ricevere in cambio assorbenti”.
La camera che sto tenendo in mano trema per un attimo. Non pensavo che la povertà potesse essere cosi profonda e disperata. Mi viene da piangere, o da urlare.
Fred lavora con le famiglie più povere della Slum, e i ragazzi più in difficoltà.
Attraverso Green Card prende in affidamento dei bambini per alcuni mesi, quando le famiglie non hanno nessun tipo di sostentamento e manca anche il cibo dalla tavola, e attiva workshops e attività di micro credito per aiutarle a intraprendere una qualunque attività che possa garantire loro un guadagno. Quindi reintroduce il bambino in famiglia.
Ma questa è solo una delle tante cose che fa Green Card.

Dove prima c’era la più grande discarica della slum, Fred ha ripulito e ha costruito dei campi di pallone. Ha anche aperto una Scuola Elementare – purtroppo adesso momentaneamente chiusa per mancanza di fondi che assicurassero la sua sostenibilità – e finanziato la creazione di una piccola libreria, vero rifugio per i bambini della zona.
Il problema della spazzatura è enorme: molte malattie provengono dalla semplice mancanza di igiene. Insieme a Green Card, molte altre realtà sono impegnate a depurare varie zone: le ripuliscono prima, poi piantano alberi per favorire zone verdi e ricreative.

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©Anna Raisa Favale

Non c’è un parco a Kibera.
Tra le centinaia di migliaia di capanne ammassate una sull’altra, nel fango, e le circa due milioni di persone che ci vivono dentro, il centro di Nairobi, che si intravede al di là del campo da calcio, neanche troppo distante dallo sguardo, appare un miraggio così vicino, eppure lontanissimo: Kibera è un satellite che si muove indipendentemente e in una sua specifica traiettoria.

Quel pallone di tela strappato rappresenta ancora per molti un modo per sognare, una speranza al di là di quella linea di confine che separa i due universi.
Ma fare goal nella vita non è facile, ci sono ragazzi che hanno lasciato la scuola da bambini e adesso hanno 18, 19 anni e non vedono nessuna prospettiva di vita futura.
E questo, Fred, lo sa fin troppo bene.

Per questo, non si ferma mai: dove prima c’era un pollaio, ha adesso creato un centro per ragazzi, dove si organizzano eventi di sensibilizzazione e si impara artigianato.
Ha anche aperto un piccolo laboratorio informatico, dove i ragazzi possono accedere ai computer.

Con i suoi occhi guardiamo la tenerezza con la quale ci descrive la sua infanzia, nonostante la fatica, nonostante tutto. C’è tanto amore nelle sue parole.
il suo sorriso ci apre porte oltre le quali, con il nostro sguardo parziale e a volte pregiudicante di “occidentali”, non potremmo guardare.

E allora penso, che se ad un primo sguardo la realtà attorno è aberrante, sconvolgente, inaccettabile, ad uno sguardo più profondo si vede la bellezza, e si sente, si comprende che la vita è più forte.
 Che ci sono famiglie, donne che con forza sovrumana provvedono a 4, 5, 6 figli da sole, bambini di strada che hanno conosciuto solo il peggio della vita, e di cui pure basta incrociare lo sguardo per veder esplodere in sorrisi che sanno ancora di purezza.
Ragazze che combattono per prendersi un diploma in età ormai tarda, ma su cui risplende una dolcezza ed una dignità che spesso fatico a vedere nel mondo da cui provengo.

Capisco presto che ci sono altre logiche, in questo pezzo di mondo, in questa isola dell’umano così vicina e così lontana dalla Nairobi del progresso, dal mondo dall’altra parte del mondo.
I volti, i luoghi, i bambini che giocano a corda, i sorrisi, i loro occhi.
Per “noi” povertà è sinonimo di disperazione. Siamo così legati alla realtà materiale della vita, che basta poco per annientare i nostri sogni.
 In Africa c’è un modo completamente diverso di guardare alla felicità. O quantomeno in questo pezzo, di Africa. La povertà non si associa con la disperazione, e questa stessa emozione è poco conosciuta, finanche poco espressa.
Qui si respira, invece, in tanti casi, una specie di speranza. Un senso di religiosità permea la vita nella quotidianità, che tutto andrà a finire bene, nonostante tutto, che se sono qui e sono viva, e qualsiasi cosa sia successa, ne uscirò.
Questo mi porto indietro dall’Africa, questo grande insegnamento che pur viaggiando molto, non ho trovato sotto nessun altro cielo, non con questa forza.

Grazie a questa stessa grande forza, oggi Fred è un bambino salvato. Dalla droga, dal crimine, da ogni possibile deriva la sua vita potesse prendere, e ha deciso di mettere a disposizione i suoi talenti per altri bambini.
Oggi Fred è il padre di un figlio, ma anche in qualche modo padre di molti più figli, di molti più bambini, in cerca di figure d’esempio a cui guardare.
Kibera è la Baraccopoli più grande del Kenya e viene chiamata “l’inferno dell’Africa”. Io, nel paradosso della vita e della morte, in questo inferno, ho toccato con mano pezzi di un paradiso possibile, di un sogno che non si arrende ad esistere.

Mi vengono in mente le parole di Madre Teresa che mentre guardava un bambino sporco e abbandonato sul ciglio della strada, che prese con se’ e salvò dalla morte, pregò Dio e disse: “Signore, perché non hai fatto niente, per evitare tutto questo?” E il Signore rispose: “Non è vero che non ho fatto niente, ho fatto te”.

Come nel resto del mondo, il Coronavirus è arrivato anche a Kibera, dove ora come non mai c’è bisogno di aiuto.
Un giorno un missionario che da 40 anni vive in Africa mi disse: “Il popolo Africano è un popolo dalle grandi risorse, in questo e in molto altro: nell’improvvisare, nell’ironizzare e nel sognare”.

Voglio pensare che quel missionario abbia ragione, e che l’Africa si riprenderà da questo, anche da questo, come ha fatto sempre, con grande dignità, forza sorprendente, e uno spirito che non conosce eguali.

[Un piccolo aiuto è un gesto minimo quanto importante. Chi può, lo faccia: www.greencardmtaani.org]

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