In occasione della 43esima Giornata Nazionale per la Vita condividiamo con voi la testimonianza di Maria Luisa Di Ubaldo, presidente di Federvita Lazio. "Perdonami, amore mio": le ultime parole sussurrate al suo bambino
In occasione della 43esima Giornata Nazionale per la Vita siamo felici di poter condividere con voi l’intensa testimonianza che ci ha inviato Maria Luisa Di Ubaldo, madre di quattro figli e già nonna di tre nipoti. È la presidente di Federvita Lazio, Federazione Movimenti per la Vita, Centri di Aiuto alla Vita e Case di Accoglienza del Lazio.
Ho conosciuto Maria Luisa lo scorso anno e mi ha colpito subito il suo sguardo sereno, il sorriso luminoso e il volto dolce ma lievemente velato di malinconia.
Nel suo servizio a sostegno della Vita, Maria Luisa mette tutto il coraggio, l’impegno, la passione, la professionalità ma soprattutto il sentimento, intriso della sua storia e dei suoi valori.
La ringrazio profondamente di averci donato una pagina della sua vicenda personale così intima e drammatica: un aborto all’età di 16 anni, a ridosso del varo della legge 194, in un clima generale di vuoto entusiasmo per la “conquista” di quello che veniva sbandierato come un diritto delle donne, e che poi si sarebbe rivelato un tragico inganno.
Maria Luisa e i suoi genitori ne furono vittima.
Un dolore immenso che come ogni croce però, se portata con Cristo, è preludio di resurrezione.
Infatti, grazie al sostegno della madre e del padre, – che hanno duramente sofferto per la decisione di allora – ha potuto contemperare la cura e l’educazione dei figli con l’impegno della formazione per diventare una volontaria a difesa della vita fin dal suo concepimento.
Maria Luisa si è affidata a Dio, Lui l’ha ricolmata del Suo amore e le ha dato un segno speciale che ha dato inizio alla sua rinascita.
Così è guarito il suo cuore ed ora, da tanti anni, si è messa a servizio delle donne e dei loro bambini affinché nessuna debba dire un giorno con la voce rotta dal pianto: “perdonami, amore mio”.
La testimonianza
di Maria Luisa Di Ubaldo
Quante volte ho provato a raccontare la mia storia, quante notti a pensarla, a capire… per anni ho cercato di cancellare ogni istante vissuto, ogni parola ascoltata; oggi cerco nei miei ricordi tutti i particolari che mi possano aiutare a riviverla perché quei cinque mesi sono stati gli unici che ho vissuto insiemea mio figlio e non mi spaventano più!
All’età di sedici anni mi sono affacciata timidamente dal nido e ho cominciato a vivere la mia adolescenza con la barbie in mano e la voglia di rincorrere il sogno che ogni adolescente porta nel cuore… trovare il principe azzurro!
Frequentavo la parrocchia e i miei genitori mi avevano concesso di andare sola ai vari incontri. Il tragitto che dovevo compiere era breve, trecento metri… tanto poco per sconvolgere la mia vita!
Conobbi un ragazzo durante il mio breve percorso, si prese tutto di me, il mio cuore, la mia anima, il mio amore e il mio giovane corpo.
Credevo di aver incontrato il “principe azzurro” e invece avevo trovato l”’uomo nero”. Scoprii il mio corpo mentre scoprivo l’amore, mi affidai a lui che tradì la mia fiducia.
Improvvisamente mi resi conto che qualcosa dentro di me stava cambiando.
“Non sono suo padre, sarà stato qualcun altro”
Fu una mia amica a suggerirmi il test di gravidanza che, inesorabile, si rivelò positivo!
Aspettavo un bambino.
Un turbinio di pensieri mi sconvolse la mente e istintivamente decisi di proteggere mio figlio custodendo il segreto nel profondo del cuore… fino al giorno in cui decisi di dirlo a suo padre. Mi sentivo serena, tranquilla, sicura che lui avrebbe gioito con me, sarebbe stato felice di sapere che presto avremmo avuto un figlio!
Non sono suo padre, sarà stato qualcun altro.
Le sue parole furono per me un pugno allo stomaco, ricordo che portai istintivamente le mani sul ventre come per proteggere mio figlio; piansi, urlai, ero disperata perché improvvisamente la realtà mi appariva nella sua verità: aspettavo un figlio da un uomo che non ne voleva sapere, dovevo dirlo ai miei da sola e avevo tanta paura.
Era tardi, intorno a me solo buio, dentro di me buio!
Vagai per le strade del quartiere, pensavo ai miei genitori, alla loro preoccupazione nel non sapere dove fossi e al momento in cui avrei dovuto dirgli che ero incinta.
Non sapendo cosa fare tentai un ultimo gesto, entrai in una tabaccheria che stava chiudendo e telefonai al padre di mio figlio con la speranza di farlo riflettere.
Mi rispose sua madre che oltre a non passarmelo, mi trattò malissimo invitandomi a non cercarlo più.
Il tabaccaio, l’angelo custode che chiamò i miei genitori
Agganciai il telefono ero stordita e il tabaccaio m’impedì di uscire, aveva ascoltato la telefonata e intuito la mia disperazione e, come un buon padre, si fece dare il numero di telefono dei miei e chiamò a casa.
Oggi sono convinta di avere incontrato un angelo custode: fu lui ad affidarmi ai miei genitori e a raccontargli tutto con estrema delicatezza.
Non dimenticherò mai l’istante in cui i miei occhi s’incontrarono con quelli di mamma e di papà, increduli, terrorizzati ma felici di avermi ritrovata.
Così iniziò il mio calvario.
Il buio totale ritorna nella mia mente, ricordo vagamente che mi portarono da un ginecologo, mi visitò e stabilì l’epoca di gestazione, secondo i miei calcoli avevo di gran lunga superato il limite dei 90 giorni e consigliò “Villa Gina”.
Ci trovavamo nel 1981, da poco era stata varata la legge 194 in nome della libertà della donna e per evitare gli aborti clandestini.
Avrebbe dovuto tutelare la maternità invece rese legale l’omicidio di Stato!
I miei genitori sono stati vittime di questa legge così come lo sono stata io e mio figlio, con l’aggravante di essere stati mandati nelle fauci del lupo: “Villa Gina” meglio conosciuta da tutti come la clinica degli aborti illegali.
Il giorno dell’aborto, l’ultimo trascorso con mio figlio
La mia memoria torna al giorno dell’aborto, l’ultimo giorno trascorso con mio figlio che, sempre secondo i miei calcoli, custodivo nel mio ventre da circa cinque mesi.
Mi rivedo sul lettino in una piccola stanza, piango disperatamente mentre le infermiere parlano del più e del meno.
Le disturbo con il mio pianto e mi rimproverano dicendo:
Ma cosa piangi! Smettila, ci dai fastidio!
Voglio scappare, voglio mio figlio. Glielo dico ma non mi ascoltano.
Poi arriva il medico.
È ancora sveglia la ragazza? Non vedete che piange? Fatele l’anestesia!
Portai di nuovo la mano sul mio ventre come un ultimo tenero e lungo abbraccio: