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Lo stupendo Super Bowl di una campionessa senza gambe 

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Toyota USA | Youtube

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 09/02/21

Trasmesso nella domenica del Super Bowl lo spot sulla nuotatrice parolimpionica iridata prodotto dalla Toyota, sponsor del team olimpionico statunitense. Meno di un minuto per accordare il vero ideale “pro-life” con un orizzonte autenticamente “pro-choice”.

È difficile, per un europeo, immedesimarsi nel trasporto che il Super Bowl sembra avere nella società statunitense: la Champions League non è altrettanto sentita, e se un dubbio in merito poteva essere sollevato esso è stato tolto di mezzo dalla serie-evento This is us, di Dan Fogelman, nella quale “la domenica del Super Bowl” riveste un’importanza di primo rilievo da più punti di vista.

Ancorché magnificamente scritta e interpretata, la bellissima serie non ha però creato dal nulla “la mistica del Super Bowl”: l’ha piuttosto innestata in un contesto socio-culturale in cui un evento sportivo diventa vetrina di grandi icone pop, di varietà ad altissimi livelli con investimenti da capogiro.

In questa grande narrazione popolare, che è senza dubbio a suo modo una “liturgia civile”, gli statunitensi amano raccogliere e raccontare storie che sublimino nell’attività sportiva il meglio dell’“American Dream”, e questo permette talvolta di lasciar spuntare dal variopinto asfalto dello showbiz qualche invitto germoglio del prato olimpionico.

Lo spirito delle Olimpiadi irrompe nel Super Bowl 2021

Proprio a un’atleta olimpionica – anzi, parolimpionica –, 13 volte medaglia d’oro olimpionica, è dedicato un toccante cortometraggio in forma di spot che il suo sponsor, la Toyota, ha voluto finanziare. L’atleta in questione è Jessica Tatiana Long, nata il 29 febbraio 1992 in una cittadina della Siberia: la bimba era nata priva di rotule, tibie e di tutta l’ossatura delle gambe. A 13 mesi la bimba è stata adottata da una famiglia di Baltimora, nel Maryland, e solo cinque mesi dopo veniva sottoposta al radicale intervento di amputazione delle gambe all’altezza del ginocchio.

Lo spot racconta il decisivo momento della telefonata dell’assistente sociale ai genitori (adottivi) di Jessica:

Abbiamo trovato una bambina per la vostra adozione, ma ci sono alcune cose che dovete sapere… Le sue gambe dovranno essere amputate: la sua vita non sarà facile.

Seguono pochi secondi di silenzio, nel cui spazio una sapiente regia ha compendiato la crescita, gli allenamenti e i trionfi della campionessa, quindi la risposta della madre:

Potrà non essere facile, ma sarà meravigliosa. Non vediamo l’ora di conoscerla.

E giù applausi e pianti dagli spalti e sui divani, da mani impiastricciate di patatine al cheddar e da occhi di milioni di giovani che in questa straniera adottata trovano all’istante un modello e un simbolo di unità nazionale, anzi – di più – del fatto che finire negli USA può ancora significare “trovare l’America”. La nota attivista prolife Lila Rose, fondatrice e presidente di Live Action, ha condiviso lo spot andato in onda durante il #SuperBowl55 commentandolo come un “bellissimo spot pro-life per il Super Bowl”:

A dispetto delle avversità – ha commentato poi nel thread – Jessica è cresciuta diventando una donna forte, bella e realizzata, che nel nuoto ha vinto più di 60 medaglie a livello di campionati mondiali.

Nello stesso thread si segnalano non pochi commentatori che – ritenendosi piuttosto “pro-choice” che “pro-life” – hanno mal tollerato la definizione data dalla Rose:

Anche i pro-choice sostengono l’adozione, comunque…

https://twitter.com/crindal00/status/1358872574227337221

È chiaro che in un momento di massima unità nazionale («la sabbia del Colosseo – insegnava The Gladiator – e non il marmo del Senato»…) a nessuno fa piacere sentirsi estromesso dalla narrazione collettiva: a parte che Toyota effettivamente non rientra nelle liste di società filo-abortiste stilate dal Family Council… il punto non è la visione che la multinazionale asiatica sposa dell’ideologia femministoide a sostegno dell’aborto – e Lila Rose è generalmente aliena a ogni manovra inutilmente divisiva – bensì la posizione che si prende davanti alla cultura dello scarto.

La contraddizione di una subcultura tutto fuorché “pro-choice

Il paradosso della Weltanschauungpro-choice” trova infatti in storie come quella di Jessica Long una pietra d’inciampo e un “segno di contraddizione”: infatti un “pro-choice” (il quale normalmente non si definirebbe un “anti-life”) vorrebbe celebrare nella campionessa parolimpionica il medesimo sacro dogma dell’autodeterminazione in nome del quale avrebbe difeso il “diritto” di una donna incinta di una bimba senza rotule e tibie ad abortire il “feto” (o “frutto del concepimento”).

È evidente però che l’“autodeterminazione” di Jessica Long non pregiudica destini altrui, anzi ne ispira moltissimi ad elevarsi e nobilitarsi; quella di una donna che abortisce può invece impedire a una Jessica Long di vedere la luce (e in ciò si rivela più “allo-” che “auto-determinazione” [“allo-” sta per “altro”, mentre “auto-” per “sé”], anzi più precisamente si manifesta per la “allodeterminazione” che è).

Questo ragionamento, però, sarebbe ancora freddo e impersonale, ancorché inattaccabile, e sortirebbe lo sciagurato effetto di lasciare le donne (e le famiglie) spaventate per delle gravidanze difficili ancora più sole. Il claim con cui si conclude il corto, invece, è più sapiente e caloroso:

Noi crediamo che ci siano speranza e forza in ciascuno di noi.

Vero American Dream, vera cultura pro-life… e a quel punto anche vera cultura pro-choice (in cui cioè le vite e le scelte vengono esaltate in quanto non precludono altre vite e altre scelte, bensì le favoriscono e le incoraggiano): tanto ha potuto, forse anche solo per qualche istante, la virtù della settima musa.

L’Evangelo della vita portato da Gesù

Tale sarebbe anche la dottrina della Chiesa Cattolica, che quando difende le vite innocenti e indifese non lo fa per caricare sulle spalle dei genitori (o – nei casi peggiori – della sola madre) l’insostenibile alternativa tra la soppressione del figlio e la gestione vitalizia di un handicappato, ma per distribuire sulle più larghe forze della comunità l’onere e l’onore di sostenere un’esistenza fragile e vederla comunque sbocciare e sorprenderci.

Negli ultimi mesi del 1991, quando della piccola Jessica si poterono forse intravedere in ecografia le gambe senza ossa, qualcuno potè alzare al Cielo la dolorante domanda: «Di chi è colpa che questa creatura sia così? Sua o nostra?» (cf. Gv 9,2). Venti anni dopo, e anzi già da molti anni ormai, in tanti risponderemmo serenamente con parole simili a quelle del Redentore: «La colpa non è sua, né dei suoi genitori: è così invece perché si manifestino in lei le opere di Dio» (cf. Gv 9,3).

E la Croce di una creatura innocente – quella che in un primo momento ci avrebbe «fatto girare il capo dall’altra parte» (cf. Is 53,3) – è diventata così gloriosa e splendida che Jessica ci appare bellissima e meravigliosa non solo nonostante le gambe amputate, ma misteriosamente anche in quelle, e la sua storia «diventa come un albero all’ombra del quale altre persone trovano riparo» (cf. Mt 13,32).

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Harry How / GETTY IMAGES NORTH AMERICA via AFP

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