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Papa in Iraq: le parole su Cristo che non avete letto

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VATICAN MEDIA | AFP

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 09/03/21

Essendo stata una prima assoluta nella storia del Papato, la visita di Francesco nella terra di Abramo merita di essere considerata sotto il profilo dogmatico, ecclesiologico e missiologico.

Il 33º viaggio apostolico di papa Francesco, da poco conclusosi con il rientro a Roma dall’Iraq, è stato accolto dai media occidentali un po’ come il seme della celeberrima parabola di Gesù (Mt 13,1-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15): 

  • in buona parte con indifferenza, come se nulla stesse accadendo o rubricando rapidi servizi sotto la voce “esteri” (diciamo “il seme caduto sulla strada” e subito beccato via dagli uccelli); 
  • quanti non sono stati indifferenti si sono poi vistosamente divisi tra 

    • quelli che esaltavano la discontinuità rispetto ai precedenti pontificati (o anche solo rispetto al precedente), e che per questo soffocavano la forza profetica dei gesti e delle parole di Pietro tra le spine delle loro ideologie; 
    • quelli che accusavano direttamente Francesco di essersi “prostrato all’Islam” o di aver “annacquato la fede cristiana” senza annunciarla con franchezza (e che in tanta arida durezza neppure permettevano agli eventi di colpirli, come i sassi che impedivano ai semi di mettere radici). 

È dato sperare, evidentemente, che ancora e sempre sussistano i semi silenziosi che cadono sulla terra buona – «gli occhi dei poveri piangono altrove» (De André) – e che portano frutto secondo l’intenzione del Grande Seminatore. Tali frutti si manifesteranno solo nel tempo, dunque alla data odierna non si possono formulare se non voti e auspicî. 

Neppure Pietro ha bisogno di apologie, mentre è pienamente sensato chiedersi – a consuntivo di un’impresa apostolica evidentemente importante – quale sia stato lo stile evangelico scelto dal successore del Principe degli Apostoli. Abbiamo quindi trovato interessante e utile raccogliere i passi in cui Francesco ha parlato di Gesù in Iraq, per provare ad abbozzare “la cristologia del viaggio in Iraq”. 

Incontro con le Autorità, la Società civile e il Corpo Diplomatico (5 marzo)

Sorvoliamo (è il caso di dirlo) sul colloquio coi giornalisti all’andata, da quanto lo stesso è stato poco più di un cordiale ma formale saluto. Il primo importante evento pubblico è stato l’incontro con le Autorità di Stato e col Corpo diplomatico accreditato in Iraq. Lì si trova una diffusa introduzione teologica e religiosa – in un Paese occidentale l’avrebbero forse giudicata “lesiva della laicità secolare” – al cui culmine Francesco presenta sinteticamente sé stesso, la propria missione e dunque il proprio Mandante: 

Signor Presidente, distinte Autorità, cari amici! Vengo come penitente che chiede perdono al Cielo e ai fratelli per tante distruzioni e crudeltà e vengo come pellegrino di pace, in nome di Cristo, Principe della Pace. Quanto abbiamo pregato, in questi anni, per la pace in Iraq! San Giovanni Paolo II non ha risparmiato iniziative, e soprattutto ha offerto preghiere e sofferenze per questo. E Dio ascolta, Dio ascolta sempre! Sta a noi ascoltare Lui, camminare nelle sue vie.

Francesco, Incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico, venerdì 5 marzo 2021

“Vengo come pellegrino”, ha detto – non come capo di Stato o come leader religioso –, e “a chiedere perdono”; ma “in nome di Cristo”, definito “principe della pace”. La citazione esplicita di Is 9,5 sfrigola come la miccia di una bomba che racchiude tutta la deflagrante pretesa dell’annuncio cristiano: 

Poiché un bambino è nato per noi,
ci è stato dato un figlio.
Sulle sue spalle è il segno della sovranità
ed è chiamato:
Consigliere ammirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace.

Is 9,5
Georg Friedrich Händel, Messiah, 1741

Incontro con i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, i seminaristi e i catechisti (5 marzo)

Era difficile pensare di dire di più alle autorità civili, sociali e diplomatiche di un Paese di cristianizzazione remotissima, sì, ma in entrambi i sensi della parola (specie dopo le scorribande dei tagliagole dell’Isis). Parlando invece con il “piccolo resto” del “vero Israele” pellegrino in Iraq, Francesco ha sbottonato più generosamente la pettorina che gli serrava il cuore: 

Il cristiano infatti è chiamato a testimoniare l’amore di Cristo ovunque e in ogni tempo. Questo è il Vangelo da proclamare e incarnare anche in questo amato Paese.

Come vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, catechisti e responsabili laici, tutti voi condividete le gioie e le sofferenze, le speranze e le angosce dei fedeli di Cristo. […] 

Quanto ha bisogno il mondo intorno a noi di ascoltare questo messaggio! Non dimentichiamo mai che Cristo è annunciato soprattutto dalla testimonianza di vite trasformate dalla gioia del Vangelo. Come vediamo dall’antica storia della Chiesa in queste terre, una fede viva in Gesù è “contagiosa”, può cambiare il mondo. L’esempio dei santi ci mostra che seguire Gesù Cristo «non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 167). […] 

L’amore di Cristo ci chiede di mettere da parte ogni tipo di egocentrismo e di competizione; ci spinge alla comunione universale e ci chiama a formare una comunità di fratelli e sorelle che si accolgono e si prendono cura gli uni degli altri (cfr Enc. Fratelli tutti, 95-96). […] 

Ogni sforzo compiuto per costruire ponti tra comunità e istituzioni ecclesiali, parrocchiali e diocesane servirà come gesto profetico della Chiesa in Iraq e come risposta feconda alla preghiera di Gesù affinché tutti siano uno (cfr Gv 17,21; Ecclesia in Medio Oriente, 37). 

[…] 

Ora vorrei dire una parola speciale ai miei fratelli vescovi. […] Siate particolarmente vicini ai vostri sacerdoti. Che non vi vedano come amministratori o manager, ma come padri, preoccupati perché i figli stiano bene, pronti a offrire loro sostegno e incoraggiamento con cuore aperto. […] In questo modo sarete per i vostri sacerdoti segno visibile di Gesù, il Buon Pastore che conosce le sue pecore e dà la vita per loro (cfr Gv 10,14-15). […] 

Quando serviamo il prossimo con dedizione, come voi fate, in spirito di compassione, umiltà, gentilezza, con amore, stiamo realmente servendo Gesù, come Lui stesso ci ha detto (cfr Mt 25,40). E servendo Gesù negli altri, scopriamo la vera gioia.

Francesco, Incontro con i vescovi, sacerdoti, religiosi/e, seminaristi e catechisti, Cattedrale Siro-Cattolica di “Nostra Signora della Salvezza” a Baghdad, venerdì 5 marzo 2021

“Testimoniare l’amore di Cristo ovunque e in ogni tempo” è il compito principale dei cristiani e della Chiesa, dice Francesco; ciò avviene anzitutto condividendo le gioie e le sofferenze di tutti, soprattutto dei membri più esposti del Popolo di Dio. 

In questo discorso “a porte chiuse” la cristologia di Francesco si declina più nella testimonianza ecclesiale che nella dogmatica – che resta sottesa ma (considerato il contesto) data per assodata. Il sottotesto è quello di una cristianità frammentata e pervasa (per quanto consenta l’esiguità delle forze lo consenta) da reciproche rivalità: il Papa ricorda che il superamento di quelle antiche contese è la profezia di cui l’Iraq – come angolo prossimo di mondo – ha bisogno. 

Tornando sui confratelli nell’episcopato, invece, il discorso nuovamente tracima dall’ecclesiologia alla cristologia: il vescovo dev’essere per tutto il popolo – e a cominciare dal presbiterio – «segno visibile di Gesù Buon Pastore, che conosce le sue pecore e dà la vita per loro». La missione di Cristo nel mondo è anzitutto servizio, dono, riscatto incondizionato: quando i suoi discepoli a loro volta vivono come il loro Maestro vengono riempiti di una Gioia che invita gli uomini a interrogarsi e li attrae. 

Incontro interreligioso (6 marzo)

L’indomani Francesco si è recato da Baghdad alla Piana di Ur, dove – contestualmente all’Incontro Interreligioso del 6 marzo – si è registrato l’unico discorso del viaggio apostolico in cui non è mai risuonato apertamente il nome di Gesù Cristo. 

Francesco ha scelto invece di impostare il suo discorso tutto su Abramo, in una “composizione circolare” che partiva da Gen 15 e che lì tornava a concludere. Una scelta quasi obbligata, dato il contesto spaziale (oltre alla circostanza). La scelta di Abramo e il poetico e reiterato riferimento alle stelle (citate 11 volte nel discorso) pone però il tema in chiave di promessa e di profezia

Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe. Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo.

Cari amici, tutto ciò è possibile? Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.

Francesco, Incontro interreligioso nella Piana di Ur, sabato 6 marzo 2021

Il telaio del Papa era naturalmente fornito dalla Lettera ai Romani (anche citata nella lettera) e dalla Lettera agli Ebrei – entrambi testi che additano Abramo come destinatario della promessa che si compie in Cristo. 

Da un lato Francesco “non poteva” impostare un discorso del tipo “voi siete tutti in un vicolo cieco, i veri figli di Abramo siamo noi” (perché falso e quindi infruttuoso); dall’altro è stata interessante la sua scelta di svolgere nel futuro le profezie messianiche (anche Is 2 qui riportata). Una scelta intelligentemente profetica perché Francesco non ha additato a quelle persone il Messia come un personaggio storico, del passato, ma come il Destino che sta davanti a loro e a cui tutti gli uomini sono destinati: collaborare perché si compiano le profezie messianiche significa precisamente disporsi a vedere l’adempimento della promessa fatta ad Abramo. 

Santa Messa (6 marzo)

Di Gesù il Papa avrebbe parlato del resto, e con abbondanza, quello stesso giorno, di ritorno a Baghdad, durante l’omelia pronunciata nella Cattedrale Caldea dedicata a San Giuseppe. Commentando Sap. 6,6 – «gli ultimi meritano misericordia, ma i potenti saranno vagliati con rigore» – Francesco ha continuato a parlare della progressione manifestata nell’economia divina e culminante in Gesù: 

Gesù, la Sapienza in persona, completa questo ribaltamento nel Vangelo: non in un momento qualunque, ma all’inizio del primo discorso, con le Beatitudini. Il capovolgimento è totale: i poveri, quelli che piangono, i perseguitati sono detti beati. Com’è possibile? Beati, per il mondo, sono i ricchi, i potenti, i famosi! Vale chi ha, chi può, chi conta! Per Dio no: non è più grande chi ha, ma chi è povero in spirito; non chi può tutto sugli altri, ma chi è mite con tutti; non chi è acclamato dalle folle, ma chi è misericordioso col fratello. A questo punto può venire un dubbio: se vivo come Gesù chiede, che cosa ci guadagno? Non rischio di farmi mettere i piedi in testa dagli altri? La proposta di Gesù conviene? O è perdente? Non è perdente, ma sapiente. 

[…] 

Ma come si praticano le Beatitudini? Esse non chiedono di fare cose straordinarie, di compiere imprese che vanno oltre le nostre capacità. Chiedono la testimonianza quotidiana. Beato è chi vive con mitezza, chi pratica la misericordia lì dove si trova, chi mantiene il cuore puro lì dove vive. Per diventare beati non bisogna essere eroi ogni tanto, ma testimoni ogni giorno. La testimonianza è la via per incarnare la sapienza di Gesù. È così che si cambia il mondo: non con il potere o con la forza, ma con le Beatitudini. Perché così ha fatto Gesù, vivendo fino alla fine quel che aveva detto all’inizio. Tutto sta nel testimoniare l’amore di Gesù […].

Possiamo chiederci: e io, come reagisco alle situazioni che non vanno? Di fronte alle avversità ci sono sempre due tentazioni. La prima è la fuga: scappare, voltare le spalle, non volerne più sapere. La seconda è reagire da arrabbiati, con la forza. È quello che accadde ai discepoli nel Getsemani: davanti allo sconcerto, molti si diedero alla fuga e Pietro prese la spada. Ma né la fuga né la spada risolsero qualcosa. Gesù, invece, cambiò la storia. Come? Con la forza umile dell’amore, con la sua testimonianza paziente. Così siamo chiamati a fare noi; così Dio realizza le sue promesse.

Francesco, Omelia del Santo Padre nella Cattedrale Caldea “San Giuseppe” a Baghdad, Sabato 6 marzo 2021

Qui la cristologia diventa manifesto di teologia politica improntata alla mitezza: che le promesse di Dio non siano vane Francesco lo attesta alla comunità (ecco il “confermare nella fede”) proprio a partire dalle storie di resilienza, di resistenza, di confessione, di conversione che egli – Pietro – ha potuto vedere passando in quella porzione del Popolo di Dio. 

Gesù è detto “la Sapienza in persona” – titolo cristologico tra i più alti – ma ciò significa che vivere secondo quella Sapienza significa vivere con Cristo e anzi lasciarsi inabitare da Cristo, ed è così che – a immagine di Cristo – si diventa testimoni di Dio e, così, beati

La confessione del nome di Gesù non è mai una mera questione di idee, di convincimenti, ma opera una concreta trasfigurazione della vita che supera d’un balzo i falsi dilemmi mondani – “mi conviene? non mi conviene?” – per approdare a un sublime “questa vita è bellissima”. 

Preghiera per le vittime della guerra (7 marzo)

L’indomani – domenica mattina – papa Francesco si è recato tra le macerie di Mosul per una Preghiera di Suffragio per le vittime della Guerra. Il luogo scelto è stato la Piazza della Chiesa, sui cui lati sorgevano quattro chiese cristiane di diverse confessioni (tutte attualmente danneggiate o semidistrutte): da una parte dunque si era evidentemente in un contesto cristiano, dall’altra l’allocuzione avveniva da una piazza, luogo pubblico e “profano” per eccellenza. Francesco ha qui scelto di non parlare ai soli cristiani o dei soli cristiani, ma di coinvolgere tutti – come si addiceva alla piazza – nella preghiera al Dio di Gesù Cristo – come si addiceva alle chiese. 

Tra il sacro e il profano, dunque, Francesco ha da un lato evitato di menzionare il nome di Gesù (ma l’invocazione eucologica sarebbe stata il triplice “Kyrie, eleison” – specificamente cristologica), e dall’altro assestato tre forti fendenti che certamente non si addicevano a considerazioni “tra cristiani”: 

Prima di pregare per tutte le vittime della guerra in questa città di Mosul, in Iraq e nell’intero Medio Oriente, vorrei condividere con voi questi pensieri:

Se Dio è il Dio della vita – e lo è –, a noi non è lecito uccidere i fratelli nel suo nome.
Se Dio è il Dio della pace – e lo è –, a noi non è lecito fare la guerra nel suo nome.
Se Dio è il Dio dell’amore – e lo è –, a noi non è lecito odiare i fratelli.

Francesco, Preghiera di suffragio per le vittime della guerra, Presso Hosh al-Bieaa (piazza della Chiesa) a Mosul, Domenica 7 marzo 2021

Tre frasi che potrebbero suonare (peraltro senza esserlo davvero) ovvie fuori da un Paese coperto dalle cicatrici dell’islamismo, ma che in una roccaforte mondiale dell’Islam Sciita significano un fermo invito a operare una revisione radicale dell’esegesi di alcune note Sure del Corano. È stato uno dei momenti in cui Francesco si è “spinto” di più nei confronti dei suoi ospiti. 

Visita alla Comunità di Qaraqosh (7 marzo)

In quello stesso giorno domenicale Francesco si è recato a visitare la comunità di Qaraqosh, una delle città a più forte maggioranza cristiana (perfino ora che la stessa è più che dimezzata): il contesto era dunque quello di una comunità confessionale cristiana, in cui Francesco era riconosciuto e accolto come Pietro, ma pure quello di una comunità cittadina devastata e che stenta a rimettersi in piedi. 

Sicuramente ci sono momenti in cui la fede può vacillare, quando sembra che Dio non veda e non agisca. Questo per voi era vero nei giorni più bui della guerra, ed è vero anche in questi giorni di crisi sanitaria globale e di grande insicurezza. In questi momenti, ricordate che Gesù è al vostro fianco. Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza! Dal Cielo i santi vegliano su di noi: invochiamoli e non stanchiamoci di chiedere la loro intercessione. E ci sono anche “i santi della porta accanto” «che, vivendo in mezzo a noi, riflettono la presenza di Dio» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 7). Questa terra ne ha molti, è una terra di tanti uomini e donne santi. Lasciate che vi accompagnino verso un futuro migliore, un futuro di speranza.

Una cosa che ha detto la Signora Doha mi ha commosso: ha detto che il perdono è necessario da parte di coloro che sono sopravvissuti agli attacchi terroristici. Perdono: questa è una parola-chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra. Noi confidiamo in Lui e, insieme a tutte le persone di buona volontà, diciamo “no” al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione.

Francesco, Visita alla comunità di Qaraqosh, Chiesa dell’Immacolata Concezione a Qaraqosh, Domenica 7 marzo 2021

A costoro Francesco ha annunciato l’Evangelo di Gesù che è il Dio-con-noi, e lo ha fatto raccogliendo dall’assemblea i segni della presenza e dell’azione del Risorto: se perdonare è infatti necessario per restare cristiani, ciò è pure impossibile senza lo Spirito di Cristo. 

Angelus 

Nel medesimo contesto è stata recitata anche la preghiera mariana del mezzogiorno, e questo ha offerto a Francesco l’occasione per una digressione mariologica: 

Mentre arrivavo con l’elicottero, ho visto la statua della Vergine Maria su questa chiesa dell’Immacolata Concezione, e ho affidato a lei la rinascita di questa città. La Madonna non solo ci protegge dall’alto, ma con tenerezza materna scende verso di noi. La sua effigie qui è stata persino ferita e calpestata, ma il volto della Madre di Dio continua a guardarci con tenerezza. Perché così fanno le madri: consolano, confortano, danno vita. E vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e a tutte le donne di questo Paese, donne coraggiose che continuano a donare vita nonostante i soprusi e le ferite. Che le donne siano rispettate e tutelate! Che vengano loro date attenzione e opportunità! E ora preghiamo insieme la nostra Madre, invocando la sua intercessione per le vostre necessità e i vostri progetti. Vi pongo tutti sotto la sua protezione.

Ibid

Santa Messa (7 marzo)

Il momento più apertamente kerygmatico della visita apostolica del Papa in Iraq è stato indubbiamente toccato nella messa domenicale (quale momento più “kairologicamente” appropriato?), quando a partire da 1Cor 1,24 – «Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» – Francesco ha ricordato con la massima schiettezza che nulla di tutto quanto si era detto e considerato fino ad allora era possibile senza Cristo. E non “senza la sua dottrina” o “senza il suo esempio”, senza “la sua ispirazione” (intesa “da influencer”): 

Abbiamo bisogno che siano spazzate via dal nostro cuore e dalla Chiesa le nefaste suggestioni del potere e del denaro. Per ripulire il cuore abbiamo bisogno di sporcarci le mani: di sentirci responsabili e non restare a guardare mentre il fratello e la sorella soffrono. Ma come purificare il cuore? Da soli non siamo capaci, abbiamo bisogno di Gesù. Lui ha il potere di vincere i nostri mali, di guarire le nostre malattie, di restaurare il tempio del nostro cuore.

A conferma di ciò, come segno della sua autorità dice: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (v. 19). Gesù Cristo, Lui solo, può purificarci dalle opere del male, Lui che è morto e risorto, Lui che è il Signore! Cari fratelli e sorelle, Dio non ci lascia morire nel nostro peccato. […] 

Gesù non solo ci purifica dai nostri peccati, ma ci rende partecipi della sua stessa potenza e sapienza. Ci libera da un modo di intendere la fede, la famiglia, la comunità che divide, che contrappone, che esclude, affinché possiamo costruire una Chiesa e una società aperte a tutti e sollecite verso i nostri fratelli e sorelle più bisognosi. E nello stesso tempo ci rafforza, perché sappiamo resistere alla tentazione di cercare vendetta, che fa sprofondare in una spirale di ritorsioni senza fine. Con la potenza dello Spirito Santo ci invia, non a fare proselitismo, ma come suoi discepoli missionari, uomini e donne chiamati a testimoniare che il Vangelo ha il potere di cambiare la vita. Il Risorto ci rende strumenti della pace di Dio e della sua misericordia, artigiani pazienti e coraggiosi di un nuovo ordine sociale. Così, per la forza di Cristo e del suo Spirito, avviene quello che l’Apostolo Paolo profetizza ai Corinzi: «Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1,25). Comunità cristiane composte da gente umile e semplice diventano segno del Regno che viene, Regno di amore, di giustizia e di pace.

«Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19). Parlava del tempio del suo corpo, dunque anche della sua Chiesa. Il Signore ci promette che, con la potenza della sua Risurrezione, può far risorgere noi e le nostre comunità dalle macerie causate dall’ingiustizia, dalla divisione e dall’odio. È la promessa che celebriamo in questa Eucaristia. Con gli occhi della fede, riconosciamo la presenza del Signore crocifisso e risorto in mezzo a noi, impariamo ad accogliere la sua sapienza liberatrice, a riposare nelle sue ferite e a trovare guarigione e forza per servire il suo Regno che viene nel nostro mondo. Dalle sue piaghe siamo stati guariti (cfr 1 Pt 2,24); nelle sue piaghe, cari fratelli e sorelle, troviamo il balsamo del suo amore misericordioso; perché Egli, Buon Samaritano dell’umanità, desidera ungere ogni ferita, guarire ogni ricordo doloroso e ispirare un futuro di pace e di fraternità in questa terra. 

Francesco, Omelia del Santo Padre nella Messa celebrata nello Stadio “Franso Hariri” a Erbil, Domenica 7 marzo 2021

Il cristianesimo, come risuona da questo annuncio, è un evento carismatico e apocalittico benché perfettamente inserito nella realtà mondana («come è l’anima nel corpo», secondo l’anonimo A Diogneto): la Risurrezione di Cristo è il perno che rende stabile per sempre ogni umana fragilità, purché questa si lasci pervadere dallo Spirito che Dio desidera diffondere attraverso la storia su ogni creatura. 

Conferenza stampa sul volo di rientro (8 marzo)

Lungo il viaggio di rientro a Roma, i giornalisti non si sono attardati a porre questioni teologiche, ma rispondendo al libanese Imad Abdul Karim Atrach (Sky News Arabia) Francesco ha svolto una considerazione che chiamava in causa anche il portato dogmatico della sua visita: 

Il documento di Abu Dhabi del 4 febbraio [2019] è stato preparato con il grande Imam in segreto, durante sei mesi, pregando, riflettendo, correggendo il testo. È stato, io dirò – è un po’ presuntuoso, prendetela come una presunzione – un primo passo di questo che Lei mi domanda. Possiamo dire che questo [con al-Sistani] sarebbe il secondo. E ce ne saranno altri. È importante, il cammino della fratellanza. Poi, i due documenti: quello di Abu Dhabi ha lasciato in me l’inquietudine della fratellanza, ed è uscita [l’Enciclica] Fratelli tutti. Ambedue i documenti si devono studiare perché vanno nella stessa direzione, cercano… sulla fratellanza. L’Ayatollah al-Sistani ha una frase che cerco di ricordare bene: gli uomini sono o fratelli per religione o uguali per creazione. La fratellanza e l’uguaglianza, ma al di sotto dell’uguaglianza non possiamo andare. Credo che sia una strada anche culturale. Pensiamo a noi cristiani, alla guerra dei Trent’anni, alla notte di San Bartolomeo, per fare un esempio. Pensiamo a questo. Come fra noi cambia la mentalità. Perché la nostra fede ci fa scoprire che è questo, la rivelazione di Gesù è l’amore e la carità ci porta a questo. Ma quanti secoli per attuarlo!

Francesco, Conferenza stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno, Lunedì 8 marzo 2021 

Da una parte il progresso nel dialogo tra cristiani e musulmani: prima il documento di Abu Dhabi, ora l’incontro con al-Sistani. Dall’altra – e il Papa iscrive quello in questo – il progresso nella coscienza degli stessi discepoli di Gesù. Impossibile affermare apoditticamente che le guerre di religione siano estranee ai cristiani, e il pensiero va a storie ben più recenti delle crociate medievali. Impossibile affermare senza sfumature che “noi cristiani porgiamo l’altra guancia, i musulmani no”: i cristiani hanno ricevuto questi insegnamenti salutari mentre altri no (ma ciò li rende semmai ancora più colpevoli quando non li vivono), e non di rado capita che si sforzino di vivere bene perfino coloro che non hanno riconosciuto in Gesù il Maestro e il Messia. 

Lo sviluppo dalla lectio di Ratisbona 

Uno storico del cristianesimo ha giustamente deprecato la distrazione e la superficialità con cui i media occidentali (specie quelli statunitensi conservatori, che con l’Iraq avrebbero un enorme merito geopolitico) hanno osservato e narrato il pellegrinaggio apostolico di Francesco sui passi di Abramo. 

Lo stesso personaggio ha però avuto il torto di porre il magistero iracheno di Francesco in discontinuità con la lezione di Ratisbona di Benedetto XVI – laddove un noto giornalista italiano aveva paradossalmente profetato addirittura in anticipo che quello sarebbe stato il prosieguo di questa. Basta tornare all’affermazione centrale di quella chiacchierata e (colpevolmente) trascurata lectio per capirlo: 

La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura dell’anima. “Dio non si compiace del sangue – egli dice –, non agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui si possa minacciare una persona di morte…”

L’affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. 

Benedetto XVI, Incontro con i rappresentanti della Scienza, Aula Magna dell’Università di Regensburg, Martedì 12 settembre 2006

Quel che certi storici sembrano non voler capire è che la vera opzione ermeneutica, nella storia del cristianesimo, non si dà tra “uguaglianza” e “differenza”: Benedetto XVI si era infatti voluto custode della riforma nella continuità, non di uno sterile ripetersi dell’identico (mentre lo zelo di costoro nell’evidenziare fratture – effettive o presunte – li fa sembrare sacerdoti della discontinuità). Ed è difficile – oltre che contrario a tutte le evidenze – pensare che questa possa essere la via della pace (e del suo Principe). 

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