L’altro ieri Delphine Horvilleur, la “rabbina laica” (come l’hanno chiamata in Francia dall’indomani dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo), ha presentato alla “matinale” di France 24 il suo ultimo libro – “Vivre avec nos morts” (“Vivere con i nostri morti”, N.d.R.) –, pubblicato da Grasset il 3 marzo scorso.
È un testo che sta riscontrando un certo interesse di pubblico e di critica, soprattutto in ambienti “non-sospetti”, dove la “rabbina liberale” è apprezzata anche per la sua declinazione simbolico-teologica della “laïcité”: «La laïcité significa che esiste uno spazio, nella nostra Repubblica, in cui l’aria non è satura di una sola credenza, ma in cui le stesse possono esistere o non esistere». Espressione che mi sembra soprattutto una versione secolare della dottrina rabbinica medievale e moderna dello “Tzimtzum” (l’autolimitazione di Dio che-fa-posto-alla-creazione): insomma, la laicità di cui parla Horvilleur sembra quasi una prerogativa divina…
L’aldilà – “luogo della domanda”
Se lo svolgimento del libro è squisitamente rabbinico (si tratta di storie, di racconti), la sua causa scatenante è eminentemente pastorale: le storie sono state raccolte per andare incontro a quanti da lei sono andati proprio nel momento della morte di un parente o di un amico – vuoi a regolare questioni pratico-logistiche, vuoi a chiedere una parola di conforto. E le storie fanno piangere, fanno ridere, fanno riflettere, come è consuetudine in quella benemerita e benedetta letteratura.
C’è però un dettaglio non trascurabile che aggiunge interesse alla faccenda: a differenza del cristianesimo – religione fondata su un’“autopsia della morte” stessa – il giudaismo rabbinico non ha una (nel senso di “una sola”) dottrina su morte e aldilà. Certo, anche nel cristianesimo (tra le confessioni e perfino al loro interno) ci sono alcune sfumature, pure importanti, ma nessun cristiano al mondo giunge ad esempio a dubitare che esista un aldilà. Alcuni giudei sì, e da sempre.
Rispondendo a una domanda a tema della conduttrice Pauline Paccard, Delphine Horvilleur ha poi detto una cosa molto interessante, che per la prima volta ho potuto mettere a fuoco tanto bene:
Noi abbiamo una parola, per dire “l’aldilà”, e questa parola è “she’ol”. Ora, “she’ol” significa propriamente “domanda”, dunque quando qualcuno muore noi diciamo che è andato “nella domanda”.
Un’interpretazione molto suggestiva, per quanto presto stemperata dalla severa nota linguistica che ho trovato nello Zorell (il vocabolario di ebraico biblico che ho in casa): lì si riconosce, sì, che c’è una oscurità etimologica, e tra le ipotesi avanzate e registrate dalla buona letteratura ce n’è una (attribuita a tale König e riportata come ultima) per cui שאול significherebbe “locus interrogationis” (“luogo della domanda” – il vocabolario di Zorell è scritto in latino).