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Genitori, smettiamola di dire ai nostri figli che hanno perso un anno

YOUNG GIRLS, HAPPY

loreanto | Shutterstock

Annalisa Teggi - pubblicato il 13/04/21

C'è tanto essere e vita e presenze dentro il tempo sospeso di questa fragilità. C'è tanto da raccogliere insieme, altro che da perdere.

Diciamo che non avevo bisogno di una grande spinta, ma solo di un soffio. Mi sono vista, e mi vedo, come madre che è accanto ai propri figli in questo gran putiferio della pandemia. E quel che vedo non mi entusiasma: sono stanca, amareggiata, sfiduciata, impaurita, fragile, instabile, facile all’ira. Tutto questo trabocca dal vaso della mia testa e si riversa su chi ho attorno. La fase de «il lockdown ci farà riscoprire il valore della famiglia stando in casa» è passata da un bel po’. Ora è tutto palude e passi sporchi, inzaccherati di lamentele.

Mi vedo e non mi piace. Mi è bastato un soffio, dunque, per tirar fuori quel che sotto covava come brace. Ho letto sul New York Times un contributo intitolato Genitori, smettetela di dire che è un anno perso. Ecco quel che c’è da gridare. Ma non agli altri, a me per prima.

Cosa significa perso?

Gli esperti dicono che alcune preoccupazioni dei genitori sono giustificate – ma solo fino a un certo punto. Non c’è dubbio che la pandemia esiga una tassa pesante dal benessere emotivo degli adolescenti. Secondo un’indagine che viene citata spesso del Centers for Disease Control and Prevention, i dati sulle emergenze relative al disagio mentale dei ragazzi tra i 12 e i 17 anni parlano di un aumento di casi del 31% dall’aprile all’ottobre 2020 rispetto al 2019. E non c’è dubbio che vedere la solitudine dei ragazzi, le difficoltà con le lezioni a distanza e le ore infinite sui social abbia procurato un grande stress agli adulti che si curano di loro.

Da New York Times

Mi accorgo che basta un nulla a innescare un flusso di parole sulla paura, sulla fatica di questi lunghi mesi di smart workind e Dad. Figuriamoci se arrivano ricerche accreditate e dati statistici incontrovertibili! Sì, i miei figli hanno sicuramente sentito uscire dalla mia bocca tantissimi discorsi sull’anno trascorso come se fosse una perdita irrevocabile che segnerà la loro crescita con molte ferite.

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Guarda che devi impegnarti di più, visto quello che stai perdendo! L’ho detto tante e tante volte, quando vedevo il maggiore perdersi ore e ore dietro i videogiochi. L’ho ripetuto quando mi sono accorta che il più piccolo nascondeva i compiti e non li faceva. E ho sbottato quando dalla materna ci proponevano mini-video lezioni che mia figlia snobbava per giocare con le sue bambole in presenza.

Sento nell’orecchio quel verso di Eliot,

Dov’è la vita che avete perduto vivendo?

Ho creduto di perdere tempo. Mentre armeggiavo con le funzioni di Zoom e la connessione a intermittenza. Mentre stampavo le fotocopie chieste dalle maestre. Mentre facevo la spesa perché siamo tutti a casa. Mentre facevo le foto dei compiti da spedire agli insegnanti. Non solo ho creduto di aver perso tempo, ma ho fatto sentire ai miei figli che quello era tempo perso.

Un gran da fare ad angosciarsi

Ma come? Allora vuoi vedere che qui il re nudo sono io? E’ caduto il gran tendone del palcoscenico e quel che si vede è una gran folla di adulti che s’inginocchiano alla voce del demone interiore: tutto quello che non porta un guadagno / un risultato tangibile è perso. Diciamocelo, abbiamo candidamente ammesso di fronte ai nostri figli che il tempo della fatica è tempo perso, il tempo della traversata al buio è tempo perso, il tempo degli inciampi e delle obiezioni è tempo perso. Ma siamo noi che lo abbiamo voluto perdere, lo abbiamo gettato nei rifiuti prima di accoglierlo.

Ma madri e padri degli studenti – quella coorte di genitori che da tempo i ricercatori conoscono come uno dei gruppi più afflitti dall’angoscia e dall’infelicità – si trovano uniti in una sorta di condivisione della comune miseria: la paura opprimente per i loro bambini, vedere il grafico della loro rendita scolastica e di vita sociale in calo, il senso che abbiano perso per strada pietre miliari dello sviluppo che non potranno essere recuperate.

Ibid.

Mi riconosco appieno nel profilo. Mi sono data un gran da fare a condividere lamentele con altri genitori. Quanti link ci siamo scambiati sulle chat di classe a proposito dei danni della Dad? Anche battute, per smorzare la tensione … ma sempre orientate a documentare l’ansia, la fatica, l’insostenibile pesantezza del presente.

I miei figli, nel frattempo, hanno fatto bene a fare quello per cui di solito li sgrido: non mi hanno ascoltato. C’è da dire che nei pochi momenti in cui mi sono fermata a guardarli, senza la cavalleria delle mie ansie lanciata all’assalto, ho visto una trama diversa dalla narrazione accreditata. Non sono affatto distrutti, anche se possono essere feriti. Sono stati capaci di crearsi dei vaccini, a cui noi adulti faremmo bene a prestare attenzione. Tentativi accennati e strampalati come è tipico dell’irruenza giovanile, ma che dettano il passo su una strada su cui dovremmo seguirli. (E poi dare a quel buono delle fondamenta).

Gira la telecamera, non vedo!

Ci sono tanti modi per arrivare a una presenza. Mentre i grandi continuavano a lamentarsi del naufragio, i piccoli hanno cominciato a giocare e costruire cose nuove con ciò che resta dopo il naufragio.

Parto dalla più piccola di casa. Ha scoperto che, seduta sotto la scrivania dove il papà lavora in smartworking, c’è lo spazio perfetto per costruire una tana ai peluches e fare un pic nic che dura ore. Intanto ascolta la videochat in cui il babbo discute coi colleghi: qualche volta sbircia e ormai conosce tutti quelli che ci sono sullo schermo, sa cosa c’è in casa di ciascuno e ogni tanto osa fare le sue richieste «Puoi girare la telecamera e farmi vedere la tua lampada a forma di fungo? Ti piace ancora? Perché non l’hai accesa oggi?».

Presenza, ecco. Si potrebbe dire che la presenza è negli occhi di chi la vede. E’ negli occhi di chi vuole incontrare e stare, ancor prima di preccuparsi di capire se la fatica di un gesto vale la pena. (Non perde nulla chi tratta come un tesoro ciò che c’è).

L’adolescente di casa ha preso l’abitudine di fare i compiti in streaming con tutti i suoi compagni il pomeriggio. Fanno molte pause, ovvio, e ascoltano canzoni insieme. Lavoro accanto alla sua stanza e li sento ridere o lanciare imprecazioni perché un compito di chimica non viene. Smettila di dire le parolacce! – gli urlo. Ma penso anche che sia benedetto questo modo che hanno trovato di essere classe, senza che nessuno li convocasse insieme per forza. Hanno creato una classe, oltre gli schemi precedenti dello stare in classe. C’è uno schermo di mezzo? Certo, non è il top. Ma io-adulto gli ho forse dato qualcosa di simile all’energia spontanea di trovare una via per ridere insieme agli amici? No, sono stata latitante.

Cosa vedi?

Ho seminato tra le parole scritte alcune foto del progetto #inDad di Helmut Berta. Questo fotografo di Alessandria ha raccolto degli scatti familiari quotidiani con l’occhio di un padre curioso:

Sono padre di due bambini piccoli che non frequentano ancora la scuola. Volevo pertanto capire e raccontare l’impatto delle Didattica a distanza sulle famiglie. Da qui l’idea di un reportage fotografico che soddisfacesse la mia curiosità e aprisse una porta in quelle che sono le vite di tante famiglie alessandrine.

Da Radio Gold

E’ entrato in casa di sconosciuti e ha guardato, semplicemente. Ha immortalato istanti di quelle giornate che noi eravamo così preccuparti di etichettare dentro griglie psicologiche, dentro sintesi storiche sulla pandemia. A noi piacerebbe tanto sapere la fine della storia. E’ dura accettare la condizione di chi sta, e basta. Sembra da ignavi, allora ci si avventura a cercare un senso, una sintesi, un qualunque discorso che metta una cornice pacificante a questo quadro incasinato.

Il fotografo scatta, e non pensa alla cornice. Guarda ed è fisso su ciò che vede. Tutta la nostra precarietà sta proprio nel voler pensare, prima di esserci fermati a guardare; nel voler ghermire una sintesi, prima di essere stati a mollo in tutto ciò che è sospeso.

Facciamo un piccolo gioco. Cosa vedi in quest’immagine? Che titolo le daresti? Con quali parole la commenteresti?

Una volta risposto, prova a fare le stesse domande ai tuoi figli. E vediamo che differenze emergono. L’ho fatto anche io. Ho notato due tazzine di caffé e un solo adulto, e tutti i pensieri si sono concentrati sulla stanchezza di quella madre. Mio figlio di 10 anni ha azzardato una storia diversa: “Secondo te, mamma, quella bimba ha la corona in testa perché sta finalmente mangiando le carote?”.

Cosa c’è qui ora, accanto a te? Mentre stai qui cosa salvi? Cosa strappi al buio, mentre ancora ci annaspi dentro?

C’è tanto essere e vita e presenze dentro il tempo sospeso di questa fragilità. C’è tanto da raccogliere insieme, altro che da perdere.

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