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«In monastero ho scoperto che non sono buona, ma vivo di perdono»

MONASTERO, TRAPPISTA, PALACOULO

Comunità Palacoulo

Annalisa Teggi - pubblicato il 28/05/21

Qualche settimana fa abbiamo chiesto a voi lettori quali fossero le vostre fragilità più forti nel momento attuale. Le abbiamo messe a tema in una chiacchierata con Suor Giusy Maffini che, insieme ad altre 9 consorelle, sta portando l'esperienza di Vitorchiano in un nuovo monastero in Portogallo. In una terra brulla e secca portano 'un'acqua' che fa bene anche a noi: «il male non può nulla contro un'umile richiesta di perdono, contro uno sguardo di stupore e gratitudine».

«Nel 2016 abbiamo constatato che il monastero era pieno, non avevamo più posto per le giovani. Ci siamo chieste se, ancora una volta, il Signore non ci stesse chiedendo di partire». A parlare è suor Giusy Maffini e il monastero a cui si riferisce è quello trappista di Vitorchiano in cui lei ha vissuto la sua vocazione per più di 20 anni.

Una nuova fondazione in Portogallo

Se ragionassimo in termini aziendali ci sarebbe di che stupirsi ed entusiasmarsi: in tempi di magra, qui c’è qualcosa che cresce al punto di non avere più posto per le nuove leve. Avremmo mai sospettato che la vocazione cistercense è un settore in crescita? Un’ottima sorpresa (… a quanto pare la narrazione mainstream sui giovani manca di qualche tassello bello grosso. Benissimo, colmeremo queste lacune).

Dallo scorso ottobre, in pieno orizzonte pandemico, suor Giusy (originaria di Cremona) si è trasferita in Portogallo per fondare un nuovo monastero, insieme a 9 consorelle. È una fondazione che ha richesto un lungo tempo di discernimento. Nel 2017 ci fu l’incontro con un vescovo portoghese che fu entusiasta all’idea della presenza di un monastero cirstercense nella sua diocesi e, segno dei segni, questo accadde proprio nell’anno del centenario di Fatima. Dunque, anche la Madonna pareva invitarle.

La sfida che la proposta cristiana del monastero lancia è che la vita dell’uomo è comunitaria – Suor Giusy Maffini

MONASTERO, TRAPPISTA, PALACOULO
La foresteria del Monastero di Palacoulo – Portogallo

Poi è arrivato un dono: nel Nord Est del Portogallo Don Antonio, sacerdote del paese di Palaçuôlo, insieme ad alcuni suoi parrocchiani, ha offerto alle suore di Vitorchiano 28 ettari di terreno per fondare questo nuovo monastero. Oggi lì sorge – i lavori sono ancora in corso – il Mosteiro trapista de Santa Maria Mae da Igreja.

In una terra arida e disabitata

È una zona del Portogallo povera di risorse e da cui la gente se ne va. Invece Suor Giusy e le sue consorelle hanno lasciato la terra feconda di Vitorchiano per andare proprio lì, a costruire una nuova casa su quella terra brulla, secca, disabitata. Fa pensare a quei versi di T. S. Eliot: in luoghi abbandonati noi costruiremo con mattoni nuovi. E quali sono questi mattoni nuovi? Il monastero benedettino è una proposta di accoglienza, dove le persone possono fare un’esperienza di fede e di preghiera. L’accoglienza, il lavoro e la preghiera: ecco da dove parte la nuova fondazione.

Abbiamo intravisto in quest’immagine qualcosa di molto vicino a tutti noi. Anche qui, nelle nostre case, c’è molta terra brulla e secca. Qui abbiamo bisogno della benedizione di una nuova fondazione, tra ansie da pandemia, crisi familiari, dubbi per il futuro. Qualche settimana fa abbiamo chiesto a voi lettori quali fossero le vostre fragilità più forti nel momento attuale, e le avete condivise. Le abbiamo messe a tema di una chiacchierata con Suor Giusy, chiedendole aiuto, di offrirci degli spunti di riflessione per non affogare nelle circostanze che ci spaventano o ci mettono in seria difficoltà.

Ne è nata una risposta comunitaria, a cui hanno partecipato anche suor Sara Smacchia, suor Annunziata Levi, suor Margherita Baldini. Eccola.

SUOR GIUSY MAFFINI
Suor Giusy Maffini

Cara suor Giusy, grazie della tua disponibilità. Da più di un anno la pandemia ha riscritto il nostro quotidiano. C’è stato un momento idillico in tutto ciò: un ritorno quasi «monastico» all’essenziale, allo ‘stare’ più che alla frenesia del ‘fare’ e ‘andare’ ovunque. Ma proprio vivendo in lockdown, in tanti casi i rapporti più stretti hanno corso il rischio di logorarsi (incomprensioni, ripicche, rabbia, ecc.). Cosa vi aiuta in monastero a essere unite senza la pretesa assurda che i rapporti siano sempre ‘perfetti’ e idilliaci?

I rapporti tra noi in monastero non sono idilliaci. Il punto è partire dalla coscienza che siamo state chiamate, insieme, dal Signore e non ci siamo scelte per temperamento o per simpatia. Ciascuna di noi ha le sue diversità, che si rivelano una ricchezza reciproca. E riconosciamo che siamo una per le altre la strada per il compimento della nostra vita e per la nostra conversione. Anche in una famiglia, pur partendo dal fatto che i coniugi sono legati da una scelta reciproca, a differenza di noi, ciò che poi tiene insieme i due è la coscienza del sacramento e non il sentimento che magari poi finisce. L’amare chiede un lavoro che implica il servizio vicendevole, il perdono, il sacrificio e la rinuncia alla passionalità effimera e egoistica, e al desiderio di allungare prepotentemente le mani sull’altro.

E andando ancor più al fondo l’amore mi chiede di riconoscere che io non sono naturalmente buona. Questa per me è stata una delle “scoperte”, fatte in monastero, nel cammino di conoscenza di me. Forse pare una ovvietà, ma per me è decisivo perché coincide con il mettermi ogni giorno in discussione.

Il peccato non è mai un’obiezione, né il mio peccato né quello altrui, perché Gesù ci ha donato il suo perdono, è morto per noi, per la nostra salvezza. L’ultima parola è uno sguardo di speranza, di bene, di rinascita, di cambiamento e di conversione, che è sempre possibile. Perdonare non significa cancellare il male, non significa non vederlo. Significa riconoscerlo per quello che è, chiamarlo per nome, con la certezza che si può e si deve cambiare. Quando Papa Francesco richiama quelle tre parole – grazie, perdono, permesso – non sta dando delle regole di galateo familiare, ma indica la strada per far crescere i rapporti rendendoli veri.

Recentemente è morto per il Covid un sacerdote della Fraternità Sacerdotale di San Carlo  Borromeo, don Antonio Anastasio. Come penso molti altri, che hanno pregato per la sua guarigione, lo conoscevo solo di vista. L’ho conosciuto di più proprio pregando per lui e in occasione della sua morte. Un suo caro amico, in una testimonianza, sottolineava come Anas – questo era il soprannome con cui era noto a tutti don Anastasio – fosse radicalmente animato nei rapporti da quello che lui stesso aveva definito un “pregiudizio positivo“.

Questa posizione – che io stessa sto sentendo come estremamente provocatoria e decisiva nel vivere il rapporto quotidiano con le mie sorelle – mi sembra decisiva anche nella vita di una famiglia, nel guardarsi fra marito e moglie, con i figli, con gli amici.

A corollario della domanda precedente, c’è anche il risvolto opposto. Lo stare insieme rischia di soffocare la libertà altrui. Una lettrice scrive: “Con i lockdown ho scoperto la fatica nuova di esserci per i figli, ma senza esserci troppo”. È possibile una giusta distanza nello stare insieme?

In realtà non è mai possibile chiudere gli altri nei nostri schemi. I miei per lo meno saltano sempre, e per fortuna! Le relazioni non sono questioni di metri, di giusto spazio da lasciare agli altri. Non è neppure sbagliato prendere una distanza, se questo ci porta ad amare di più le sorelle. Noi siamo cenobite, cioè viviamo insieme, ma siamo chiamate a vivere i rapporti nella solitudine e nel silenzio, cioè pregando le une per le altre.

MONASTERO, TRAPPISTA, PALACOULO

La preghiera aiuta ad aprirci all’altro, a lasciarci scomodare e interrogare dalle sorelle. Ma questo non esclude il fatto di dover vivere appieno le esigenze e le sfide di una relazione, di una amicizia, dentro una collaborazione, un servizio mutuo, un ascolto vero dell’altro. Così una madre di famiglia non può licenziarsi dalla sua missione di madre: non alzarsi di notte se il figlio piange, non pulire il pannolino del bambino, ma può scegliere di trovare qualche minuto durante la giornata per fare memoria del Signore che è presente e che le ha donato il bambino.

L’amore è l’avventura di tutta la vita e si impara sbagliando e si impara vivendo. Si impara dagli altri, che immancabilmente ci dicono quando siamo troppo presenti, o quando siamo stati distratti o distanti. Amare significa entrare dentro una dinamica di dono, con l’umiltà di sapere che non ne siamo capaci, ma che abbiamo disperatamente bisogno di amare e di essere amati. Con l’umiltà di dover imparare ad ascoltare gli altri per capire le loro esigenze.

Proprio stare tanto tempo insieme a chi amiamo a volte fa nascere la voglia di mollare tutto, essere soli e non rispondere più a nessuno. Scrive una lettrice: “Causa pandemia, mio marito è fuori per molti mesi, e io sono da sola col lavoro, la casa e due bambini. La tentazione di cedere, buttare tutto all’aria, recriminare in continuazione e pensare di non farcela e che non sia nemmeno giusto che faccia tutto io, arriva con la luce del mattino ogni giorno”. Con quale piede si parte ogni mattino per non cadere nella trappola dell’egoismo?

Gli amici mi sembrano fondamentali nel cammino di una famiglia. Amici veri con i quali si cammina, si domanda, ci si aiuta, si condividono le gioie e i dolori. Le amicizie aiutano a mantenere desta la memoria del perché ci alziamo alla mattina e cominciamo a lavorare. Senza compagni di strada è difficile farcela e non cedere allo scoraggiamento. Quando mi accade di voler mollare tutto, o sono dentro una recriminazione verso le sorelle perché non capiscono il mio bisogno o non vedono quello che faccio, non valorizzano il mio “sacrificio”, cerco di ricordare, di far memoria, di tutte le volte in cui i rapporti mi hanno dato la vita.

Tutte le volte che ho avuto bisogno degli altri, delle mie sorelle, della Madre, che semplicemente con la loro compagnia, con le loro parole, con la loro presenza mi hanno aiutato. Del bene oggettivo che sono per me. E allora tutto si ridimensiona.

E mi domando cosa mi sta facendo fare fatica in quel momento, e scopro sempre che il problema è dentro di me. Non sono gli altri. Gli altri sono, invece, ciò che il Signore sta usando per venirmi a trovare dentro la difficoltà che sto vivendo, per portare qualcosa di nuovo nella mia vita che altrimenti io da sola non vedrei.

Una lettrice chiede: “Come sopportare il senso di odio diffuso, l’amarezza che avvelena i rapporti, l’ossessione persecutoria del contagio. Come restare insieme senza restare soffocati dalla cupezza colpevolizzante di chi ci circonda?”

Le persone se non sono amiche diventano nemiche e le percepiamo come nemiche quando ci sentiamo minacciati. Cosa ci minaccia? Il contagio. Va bene, ma forse la preoccupazione potrebbe spostarsi dalla “salvezza” individuale a quella collettiva, dal pensiero che è giusto rispettare determinate regole sanitarie perché sono utili per la “salvezza” di tutti. Quando mi è capitato di andare a Milano, a settembre, mi ha colpito vedere le persone allontanarsi da me o evitare di passarmi vicino e mi ha impressionato il livello di disumanizzazione generale.

Una società che vive nella paura diventa schiava di chi continua ad alimentare la paura. Invece se si parte dalla coscienza che io posso prendere il Covid, così come anche quello che cammina vicino a me; che sarebbe bello che io non lo prendessi e neanche lui; che sia prudente usare certi accorgimenti.

Poi confidiamo nella grazia di Dio e andiamo avanti con la coscienza che – se ci ammaliamo o meno – prima o poi moriremo tutti, come diceva la beata Chiara Corbella e si tratta solo di rimandare il momento. Io ho fatto tutto il viaggio da Roma a Porto, in aereo di fianco a una sorella che poi si è scoperto che aveva il Covid. Come ho fatto a non prenderlo? Non lo so. E’ stata una grazia, così come è stata una grazia che tante nostre sorelle a Vitorchiano si siano ammalate e siano guarite.

E poi c’è per me un elemento fondamentale da non dimenticare ancor più oggi nell’atmosfera obnubilante e soffocante di relativismo, buonismo e perbenismo in cui siamo immersi: mi riferisco a uno dei segreti di Fatima rivelato da suor Lucia e ripetutamente sottolineato dal defunto Card. Caffarra: il diavolo ha promesso in questo secolo di attaccare gli ultimi e per lui invincibili baluardi, il sacerdozio e la famiglia. E guardandosi attorno questa guerra è più che manifesta. 

Il male, il diavolo ci sono e – può sembrare paradossale – questa è una delle prime scoperte che ho fatto arrivando in monastero. Stiamo certi comunque e non temiamo: Cristo ha vinto la morte, il male e il peccato e il diavolo non può nulla contro di Lui, ma fin dall’inizio del mondo la lotta contro l’uomo è aperta. E secondo me è buono non dimenticare che questo nemico è all’opera e gode di ogni nostra divisione, delle incomprensioni, di rabbie e ripicche, della cupezza colpevolizzante.

È buono non dimenticarlo non certo per deprimersi o essere rinunciatari, ma al contrario per armarsi adeguatamente alla battaglia. Il diavolo non può nulla contro un’umile richiesta di perdono, contro uno sguardo di stupore e gratitudine, contro il desiderio di bene, contro la disponibilità al sacrificio silenzioso e nascosto. E soprattutto contro la preghiera semplice e fatta insieme e contro la fortezza garantita dal Sacramento che è alla radice di un matrimonio e di una famiglia. E tutto questo bene silenziosamente costruisce e annienta il senso di odio diffuso che spesso pare circondarci. 

La saggezza benedettina con la sua Regola suggerisce pure degli strumenti pratici come armi e dedica a questo un capitolo completo: indico quello che mi sembra decisivo come risposta alle domande fatte “Riconciliarsi con chi si è avuta una lite prima del tramonto del sole”.

Una lettrice chiede: “Come non lasciarsi andare alla negatività e al pessimismo?”. Si può aggiungere: con la pandemia ci siamo riscoperti mortali, sembrava lo avessimo dimenticato. È pessimismo aver messo di nuovo a fuoco la «presenza» della morte?

San Benedetto nella Regola chiede al monaco di aver ogni giorno davanti agli occhi la morte. Perché ce lo chiede? Per un pessimismo? No. Ce lo chiede per ridestare la coscienza della nostra finitezza.

La nostra dimensione creaturale è una grazia, perché ci aiuta a vivere con gratitudine e con la certezza che se viviamo è perché Qualcuno ora ci tiene in vita. E questo è liberante, perché tutte le volte che viviamo pensando di essere noi i fautori della nostra vita, in realtà viviamo aldilà delle nostre forze. Questo non ci rende più felici, né più umani, né più contenti. Il più delle volte ci allontana da Dio e dagli altri.  Noi siamo delle creature, delle creature con una complessità di organi legati insieme in modo sofisticato, eppure un raffreddore può bloccare tutto il funzionamento. Allora ha senso continuare a fare finta di essere super eroi, di essere quello che non siamo e che non potremo essere mai?

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Fare i conti con l’esperienza del dolore, della finitezza e della morte è infatti un guardare in faccia la propria umanità, nella prospettiva di una preziosità e di una predilezione agli occhi di Dio. Non parlo così per sublimare la dimensione di ferita e di dolore che segna drammaticamente la nostra vita, ma perché ho ripetutamente sperimentato questa prova nelle persone a me più care. La certezza della vita eterna, che siamo voluti e amati, si è per me resa evidente proprio di fronte alla morte.

In questi giorni mi ha colpito l’omelia fatta da un Padre – Pd. Pedro – che guida una comunità di recupero per tossicodipendenti e affetti da altre devianze. Parlando della vita eterna, spostava l’accento sulla necessità della nostra morte, della nostra morte al peccato, alla superbia, alla giustificazione, per ottenere la vera vita, la vita eterna, che non è nell’aldilà ma incomincia ora.

Ciò che realmente ci dà davvero la morte è infatti il peccato. Più volte ho sperimentato che nello scegliere il male scelgo la morte. Quanto più invece c’è in me un affermare e un mendicare il bene ed il perdono, tanto più sperimento una vita bella, gustosa e vera.

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