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L’uomo non è una “macchina” meravigliosa. E’ ora di cambiare paradigma

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

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Paola Belletti - pubblicato il 16/07/21

Spesso quando si parla di noi esseri umani, soprattutto quando ci si concentra sulla dimensione somatica, è facile sentire dire (o pensare) che il nostro organismo è come una macchina: magari mirabile, complessa e stupefacente. Invece non è vero, noi siamo interi, non assemblati.

Alla scoperta dell’uomo

La modernità ci ha aiutato a scoprire moltissime cose di noi uomini, della nostra natura, di come siamo fatti, di come ci sviluppiamo, di cosa ci faccia stare bene o male.

Ma si è dimenticata di dirci, anzi di dire a sé stessa che l’uomo non è un assemblaggio bensì un unico, un intero, una sintesi viva e in dialogo perenne con l’ambiente esterno (e quello interno).

Alla riscoperta della nostra umanità

No, non siamo macchine, non siamo il cervello a capo di un corpo ben strutturato a cui far eseguire ordini complessi e per certi versi ancora ignoti, ma non più misteriosi.

Non siamo una sorta di robot ibrido, un’intelligenza impastata con la biologia – quelle faccende mollicce – che a breve l’intelligenza artificiale soppianterà per la maggior capacità e velocità di calcolo, intuizione persino, lettura della complessità del reale ed efficienza.

Siamo tutta un’altra cosa

Di chi è colpa? Da chi abbiamo preso per buono questo modello interpretativo dell’essere umano? Forse il più responsabile più vicino a noi è Cartesio, che ha messo in primo piano la potenza del pensiero e dell’autocoscienza e ha relegato il corpo ad una res con la quale trovare un qualche raccordo.

Delle cose si dispone, ma dell’uomo?

E che si fa con le res, le cose? le si usa, se ne dispone. Anche la quota pensante è una res (cogitans), forse anche lì si annida un pericolo. La res extensa ridotta a semplice porzione spaziale, materiale, con alcuna consapevolezza di sé è una vera e proprio ingiustizia ai danni della persona e di tutto il modo di concepire l’uomo e la la cultura che da lui deriva.

Il nostro corpo non è una cosa

Invece il corpo, se proprio vogliamo essere onesti con noi stessi, è piuttosto autoritario con noi: reclama una certa obbedienza (la sete, per esempio, non è un comando imperioso?) e attende il nostro governo. Ma soprattutto ha bisogno di guarigione. Ed è il primo, con tutte le sue propaggini a farci accorgere che ci siamo, che siamo sempre noi, in ogni angolo del self (si dice così ora) .

E’ ora di cambiare modelli

Ho letto un articolo davvero interessante sull’Huffington post, nella sezione Life, Salute. La firma è di uno psicologo, ma potrebbe essere quella di un filosofo e il paradigma che riconosce, più che proporlo, per definire l’umano dovrebbe entrare sempre più nell’uso comune e scalzare vecchie metafore inadeguate e dannose. Quelle che ci tengono inchiodati all’immagine di noi stessi come cose, come assemblaggio di diverse componenti, come un’interazione articolata di parti con uno scopo preciso, che funzionano per compiere azioni e processi.

Come fossimo, noi, soltanto dei robot, ma ricoperti di tessuti più morbidi e piacevoli al tatto delle macchine in rivolta contro l’umanità, quelle che ormai un secolo di fantascienza ci ha abituato ad immaginare.

Che cosa fa di un uomo, un uomo?

Che cosa, in ultima in analisi, non potrà mai essere davvero replicabile? che cosa lascerà per sempre gli androidi, i robot super evoluti e in grado persino di cogliere e di interagire con le nostre emozioni soltanto, loro sì, delle macchine?

E’ proprio la radicale diversità di paradigma che ci spiega e che non si può trasferire ai nostri sempre più stupefacenti manufatti. Non siamo macchine molto complesse per cui basterà dare tempo all’ingegno umano perché possa riprodurre questa complessità e persino superarla; traguardi peraltro già raggiunti in molti ambiti. Persino nel giornalismo pare che ci siano algoritmi molto più bravi di noi nell’ottimizzazione SEO.

Non siamo macchine, ma ci trattiamo e ci pensiamo ancora così.

Altra domanda: cosa ci impedisce di liberare davvero le nostre forze e potenzialità? Sempre questo, il paradigma sbagliato, la cornice, asfittica e deformante, nella quale ci siamo chiusi. Non sappiamo più chi siamo né di cosa davvero abbiamo bisogno.

Ora azzardo una mia semplice considerazione da profana; anche se, pure questo va ribadito, ognuno di noi ha i crediti per diventare esperto in umanità, perché ne è titolare egli per primo; non è la scienza (quella che misura, calcola, testa) in quanto tale che può dirci chi è l’uomo e in cosa consiste.

Ecco dunque la riflessione: molte delle aberrazioni e distorsioni che stanno affliggendo le ultime generazioni in merito al rapporto con la propria corporeità e all’aspetto che di essa è più emergente, la sessualità, hanno radice in questo modo di considerarci. Saremmo una sorta di entità cerebrale, fatta di intelletto, autocoscienza e forse volontà, che può e deve disporre della parte somatica che le è capitata in sorte.

E’ come se fossimo dei piloti su veicoli che non abbiamo scelto (che rabbia per l’autodeterminazione!) e che a volte non ci piacciono proprio.

L’utero è mio e lo gestisco io è l’inizio di una grande solitudine, ma non tanto rispetto alla relazione amorosa con l’altro e con il figlio, bensì innanzitutto rispetto a sé stessi. Tu, che possiedi quel corpo, anzi quella sua parte, dove abiti?

Sono finito in un corpo sbagliato a cui seguono comprensibili richieste di aiuto ma ingiustificabili concorsi di colpa nell’impossibile correzione di un assetto biologico sessuato, che alla fine si risolve in brutale manomissione.

Il corpo, invece ci precede

Credo che una possibile, stramba salvezza della nostra negata ma irriducibile unitarietà di anima, mente e corpo possa venirci dall’eccesso di attenzione che come civiltà occidentale riserviamo al benessere: quando inseguiamo il benessere “rischiamo” di accorgerci che il corpo non è qualcosa ma siamo pur sempre noi, o meglio l’unica possibilità attuale di “metterci in scena” e di stare in relazione.

Il corpo va ascoltato, nutrito, provato, esercitato, coccolato e consolato, piegato a volte, mortificato ma senza opprimerlo: persino i campioni di ascesi e digiuno lo sapevano, nei primi secoli di monachesimo cristiano.

Non siamo robot provvisoriamente più sofisticati

Nella storia dell’umanità man mano che la tecnologia e la scienza si sono sviluppate si è accentuata la tendenza a paragonare l’essere umano a una macchina sia pure “meravigliosa”. Una visione che si esprime soprattutto in maniera “implicita”, non dichiarata, ma per questo più potente e pervasiva perché più difficilmente evidenziabile e contestabile.

Huffington Post

Non ce ne rendiamo conto, dunque, ma continuiamo a guardarci e a farci guardare così, assimilandoci alle macchine, temendone un epilogo catastrofico.

Le tecnologie pronte a sostituirci nelle attività produttive e di servizi saranno sempre di più. A noi che resterà? solo di gestire delle consolle e a breve nemmeno più quello?

Se le macchine possono fare il nostro lavoro, magari meglio di noi, allora, in pratica, che differenza c’è?

Ibidem

Ragione e fede, ancora una volta in pieno accordo

L’autore del pezzo riconosce il ruolo di difesa immunitaria a questo attacco all’uomo e alla sua unicità esercitato dalla religione: essa infattici rivela che siamo figli di Dio e ci dice che siamo dotati di un’anima immortale (verità assodata anche per gran parte della cultura classica); ma aggiunge un’ulteriore considerazione che dovrebbe rassicurare anche noi credenti.

E’ la stessa ragione umana che, se esercitata correttamente, è in grado di riconoscere che la visione dell’uomo come macchina è falsa poiché non descrive la nostra realtà.

(…) La risposta a questa domanda (che differenza c’è tra noi e le macchine, ndr) è fondamentale, non certo per combattere la tecnologia e i suoi vantaggi, ma per capire che immagine, al di là di idealizzazioni o di credi religiosi, dobbiamo avere di noi stessi, come trattarci e avere rispetto della nostra natura.

Huffington post

Dovremmo renderci conto che le “parti” che abbiamo scoperto della nostra natura umana, le novità studiate ed approfondite sono come delle “zoomate” su un dettaglio che continua a far parte e ad avere senso in una figura intera, con una fisionomia non scomponibile.

Il riduzionismo è servito per andare “dentro” la materia ma è un grave errore scambiare la parte per il tutto.  (…) E questo per motivi molto seri: perché l’insieme è qualcosa di più – in termini di proprietà, qualità e funzioni – della semplice somma delle parti e perché è il tutto che spiega le parti e non viceversa.L’uomo infatti nasce da un’unica cellula, la macchina è un insieme di pezzi diversi, unificati da un progetto e legati da meccanismi di interazione. Tutta un’altra partita

Ibidem

Lo sviluppo umano conferma la nostra vera natura e vocazione

L’uomo resta intero sempre anche dietro la molteplicità che pure lo caratterizza. L’unica spinta alla scomposizione che ci assedia, lo sappiamo per rivelazione e anche per amara esperienza, è quella che ci infligge la ferita del peccato.

Il percorso che dalla cellula-madre porta all’individuo è una incredibile e costante danza tra genoma-biologia e contesto ambientale-relazionale: ciò che scaturisce – e continua a modificarsi per tutta la vita – non è quindi né figlio della biologia né dell’ambiente ma una miscela di entrambi.

Ib.

Su tutti i fronti, biologico, antropologico, filosofico, la ragione ci dice che l’uomo è tale da subito e senza alcuna interruzione. Per noi credenti è così persino nella prospettiva ultramondana: sarà un passaggio per diventare ancora di più noi stessi.

La psiche e l’anima

L’unica radicale alterità rispetto all’ambiente di cui pure facciamo parte è quel quid che ci rende superiori – non sopraffattori! – ad ogni altro essere vivente e a maggior ragione a quelli che potremmo “assemblare” noi, pur con processi sempre più complessi e autonomi, capaci persino di sfuggirci di mano.

La psiche, certo, dice l’autore del pezzo; ma per noi è anche l’anima; quel luogo in cui siamo sempre liberi e capaci di novità.

Condivido con grande sollievo la conclusione dell’autore perché per altre vie arriva dove la stessa Chiesa ci sta accompagnando da secoli, instancabile.

Se vogliamo stare bene ma bene sul serio bisogna che non ci trattiamo per ciò che siamo davvero (e per ciò cui siamo destinati, aggiungo io).

La nostra vera natura in continua relazione

Per questo occorre che ci prendiamo cura di noi e dell’ambiente (anche quello interiore, non solo boschi, ruscelli, atmosfera) riscoprendo il ritmo che ci corrisponde, rimuovendo gli ostacoli che forse noi stessi abbiamo messi o che qualcuno, infido, ci ha suggerito. Occorre fare spazio all’altro amandolo come dovremmo reimparare ad amare anche noi stessi; serve che in questo panorama riprendano spazio le presenze e la Presenza. Allora quegli strani eserciti di super robot pronti a sopraffarci in ogni cosa spariranno dall’orizzonte o meglio smetteranno di essere una minaccia.

Libertà, libertà!

Credo che questo scenario ci aiuti a capire anche la nostra salute, che è la risultante di questo processo di auto-regolazione, di queste relazioni tra biologia e ambiente mediate dalla psiche.

Prenderci cura di noi vuol dire non trattarci come macchine, magari pensanti, ma come esseri senzienti e liberi di prendere in mano il timone, curare vuol dire rimuovere i blocchi o di danni di una auto-regolazione sbagliata e restituire alla persona una nuova (e migliore) possibilità di gestirsi.

Se vogliamo stare meglio, costruire una società più umana, capire il valore dell’altro e dell’ambiente fisico (che sono dentro di noi e parte costituente della nostra auto-regolazione), dobbiamo aprire gli occhi e rispettare la nostra natura, e farci rispettare per ciò che realmente siamo.

Ibidem
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