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L’aborto uccide il figlio e ferisce a morte i genitori: aiutiamoli a guarire

WOMAN

Di Dmytro Zinkevych|Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 30/07/21

Cuori spezzati, un libro necessario, che si colloca in uno spazio ancora troppo improvvisato dell'accompagnamento spirituale dedicato alle tante persone ferite dall'aborto procurato.

La sofferenza dell’aborto; non solo sindorme

Nell’aborto la donna si trova tragicamente stretta in uno dei più crudeli triangoli drammatici, dove lei stessa è sia carnefice, che testimone che vittima.

Questa immagine, attinta alla teoria dell’Analisi Transazione e incontrata verso la fine del libro che vi voglio consigliare, mostra plasticamente quanta sofferenza si intrecci nella vita di una donna che vive un aborto.

Accompagnare con intelligenza e misericordia i sopravvissuti

Il testo in questione è un’agile opera che può diventare un vero e proprio manuale per chiunque si trovi ad operare con persone, donne e uomini, che abbiano praticato o istigato all’aborto volontario e se provino sofferenza, anche a distanza di molti anni.

Cuori spezzati. Un cammino per guarire dalle ferite dell’aborto è scritto da Jorge Marìa Randle, sacerdote argentino che vive e svolge il suo ministero negli USA e si dedica da anni proprio all’accompagnamento di persone ferite dall’esperienza dell’aborto.

Ogni gravidanza è una prova grande per la donna, ricordiamocelo quando facciamo difesa della vita

Il libro è recensito da Costanza Miriano, una delle voce più limpide, sonore ma anche pietose nel denunciare la radicale ingiustizia dell’aborto e nel difendere e voler consolare le madri. La stessa intelligente e profonda comprensione troviamo in tutto lo svolgersi del percorso che questo libro ci invita a fare.

Serve tutta la nostra umanità

Chi ha abortito e arriva a chiedere aiuto è già trafitto, sa già, anche se magari non con piena lucidità e misura, che sopprimere un figlio è una morte inflitta al figlio e una ferita causata anche a sé stessi. Dobbiamo saperlo quando ci muoviamo in iniziative pro life, quando proclamiamo il grande valore della difesa del concepito; occorre ricordarlo e averlo inciso a lettere di fuoco sul cuore quando ci capitasse di raccogliere le confidenze dolenti di donne e uomini, madri e padri, che non trovano pace per aver tolto la vita ai propri figli ancora in utero.

E’ necessario averlo presente per essere equilibrati, oggettivi e pietosi. Il male dell’aborto è enorme, ma nessun peccato ci definisce fino in fondo, ricorda l’autore nelle ultime pagine che quindi si aprono ad una grande speranza. Ecco, la speranza, la potenza tranquilla e inarrestabile del bene sono la vera forza che attraversa tutto il libro e raggiunge il lettore.

Il cammino di guarigione

L’aborto dunque per la gravità della materia – una vita umana innocente – porta un disordine molto serio e delle conseguenze incancellabili non solo su chi lo chiede o su chi lo esegue ma a cascata su tutti; questo aspetto va riconosciuto e con la maggior obiettività possibile, ma il nostro cuore può essere sanato e addirittura diventare fonte di grande bene per gli altri.

La guarigione, dunque, è un cammino e non un salto quantico.

Explicatio terminorum

La piccola e solida costruzione del testo si sviluppa saggiamente a partire da pochi pilastri fondanti; per trattare di ogni argomento dovremmo ripartire dalla definizione dei termini che lo costituiscono; e dunque che cos’è l’aborto, che conseguenze provoca, come si può aiutare chi l’ha praticato a guarire.

Dal tempo del peccato

L’aborto è con noi dalla notte dei tempi; e per notte si intende non solo la distanza cronologica dai nostri tempi che dell’aborto han fatto un’industria, ma anche l’inizio della nostra pesante convivenza col male e il peccato; dalla caduta originale l’inclinazione al male ci ha sedotti in molti modi, non ultimo presentandoci la soppressione del nascituro come una possibilità di liberazione.

La fonte scritta più antica che si riferisca ad un aborto si trova nel codice di Hamurrabu, XVIII sec. a.C..

Accettato e legalmente ammesso nel mondo greco-romano, con l’illustre eccezione di Aristotele che però derogava per motivazioni eugenetiche, trova un primo grande argine nel giuramento di Ippocrate, subito dopo il no all’omicidio del consenziente. Sarà il cristianesimo a dire un integrale no alla soppressione del nascituro e a non mutare mai questa posizione perché è con Cristo che si scopre fino in fondo il valore supremo della persona; che inizia subito e, di fatto, non finisce mai, nemmeno con la morte.

L’aborto in epoca contemporanea

Ciò che è cambiato e che contraddistingue proprio i nostri tempi è che esso, l’aborto, è ora addirittura promosso, esaltato, nobilitato; oppure banalizzato, ridotto a piccola pratica di rimozione, legittima operazione di alleggerimento individuale e collettivo. Esso è parte integrante ed espressione emblematica del materialismo e del relativismo che imperversano indisturbati quasi ovunque.

La Chiesa e il suo sicuro magistero

Il testo di riferimento per l’autore e per ogni cristiano che voglia muoversi con una formazione robusta in questa selva piuttosto oscura è l’enciclica Evangelium vitae, e il pensiero tutto di san Giovanni Paolo II.

A lui si deve la definizione di aborto che con l’uso retto della ragione non si può che abbracciare:

L’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita.

Primo passo: la riconciliazione con i figli abortiti

Se siamo riusciti ad accompagnare con compassione e misericordia chi si è avvicinato a noi, aiutandolo a capire la gravità della soppressione di un essere innocente e del tutto indifeso ora è il momento di proporre un altro passo di verità: la riconciliazioni con il figlio abrotito.

Ciò significa innanzitutto riconoscere non solo la verità del figlio ma la verità – e la bellezza – della propria maternità (e paternità).

Se quello era tuo figlio, anzi è (ma alla dimensione dell’eterno arriverà dopo), allora tu sei madre.

Dove sei, figlio mio?

Che ne è stato di mio figlio? mi avrà perdonata? dov’è ora?

Le donne, e gli uomini anche, si pongono queste domande e ponendosele sentono un dolore implacabile e una fame di risposte fondate insaziabile. Come si può aiutare a guarire da tanta sofferenza? La Chiesa non può rispondere sommariamente o fantasiosamente; deve attingere alla propria sapienza e alle verità rivelate, deve poter offrire consolazione reale.

Ogni donna lo sa per esperienza, anche a posteriori: si diventa madri dal momento del concepimento; naturalmente anche in questo ci sono dei gradi ma la verità di quella relazione è tale da subito.

Istinto di eternità

Le domande di una donna che ha perso un figlio per aborto procurato sono espressione di una benedetta ansia tipica solo dell’umano che si radica in quello che l’autore chiama “istinto di eternità”. L’uomo resiste istintivamente alla morte, la rifiuta perché è ostile alla vita e al nulla che sembra volerci inghiottire. Anche del proprio figlio soppresso si vuole sapere il destino poiché ridurlo a nulla è di fatto inconcepibile per il nostro pensiero.

Il destino finale illumina l’origine

La grazia cristiana arriva a rispondere proprio a questa presentimento di eterno e ci dice che cosa aspettarsi dal dopo, che cosa significa superare il limite della morte. E il pensiero della fine illumina il mistero dell’inizio: cosa succede quando scocca una nuova vita? di che cosa veniamo dotati da Dio in quel primo istante?

Davanti ad una donna che non ha suo figlio con sé perché lo ha respinto la cosa migliore da fare è aiutarla a riconoscerne l’esistenza reale anche se non percepibile. Tuo figlio è ed è ancora. Per questo tu sei madre e per questo puoi chiedergli perdono.

La certezza di un destino buono

La Chiesa non ha dogmatizzato la risposta alla domanda sul destino post mortem dei bimbi deceduti prima di nascere e quindi senza battesimo sacramentale ma ha nel tesoro di infinita misericordia del Padre una fonte sicura a cui attingere per offrire speranza e pace a tutte le mamme che hanno abortito un figlio, anche spontaneamente.

Dare un nome, al bambino e al proprio dolore

Dare un nome significa poter chiamare, poter accedere ad una realtà e al suo significato. E anche, dare un limite. Nei ritiri proposti aller donne che hanno abortito come tappa di guarigione, sono tutte invitate a dare un nome al figlio, a fare gesti significativi, portare un fiore, accendere una candela, che siano simbolo concreto di una verità invisibile. Sono sollecitate a rivolgersi spesso e con familiarità al proprio bambino, a sentirsene protette.

Questi momenti sono spesso difficili e carichi di tensione perché preceduti dal racconto, il più onesto possibile, dell’esperienza personale di aborto, di ciò che lo ha davvero provocato, del contesto, dei protagonisti. Serve tutta la delicatezza e lucidità del caso per aiutare ad esprimere e governare questi tsunami emotivi che dall’interiorità si riversano fuori; ogni operatore, ogni interlocutore in questi contesti, se vuole aiutare, deve essere consapevole di quali acque agitate si vanno a solcare.

Il male compiuto ha un limite

Il bimbo ha un volto (immaginato) e un nome. Grazie ad essi la madre, e il padre, riescono a riconoscerne l’esistenza, a vedere che è un male avergliela sottratta e a dare un confine al male compiuto.

Esso è grande, ma non smisurato; lascia ferite incancellabili ma no annienta la vita dei genitori e il valore della loro, anch’essa bene prezioso agli occhi di Dio.

Il perdono di Dio

I passi successivi sono anch’essi di verità e riconciliazione. La verità della donna come figlia, davanti a Dio; la verità del male compiuto, la verità del pentimento e non solo il ricatto continuo del senso di colpa; la verità del perdono che Dio dà e non ritirerà mai.

Il perdono di sé

L’ultimo passo è il più difficile: perdonare sé stessi. Le immagini dell’aborto compiuto, le immagini di ricordi possibili del proprio bambino mai nato, la violenza psicologica e le pressioni subite; la rabbia ad essa connessa. Tutto sembra concorrere a rendere impossibile il perdono concesso a sé stessi, continuamente messo in discussione come si fa anche mettendo in dubbio la possibilità che Dio possa davvero perdonarci.

Donna, perché piangi?

Invece la grazia di Dio è davvero capace di guarire ma noi dobbiamo accettare la fatica di liberarci piano piano di altri pesi che ci si addossa da soli.

C’è un ultimo passo, necessario, da compiere con coraggio e umiltà: imparare a smettere di soffrire. La donna che ha abortito sembra quasi paradossalmente tranquillizzata dal fatto di non essere felice, di non concedersi più di esserlo.

Invece Dio non vuole questo; ha già pagato tutto, vuole solo pentimento sincero e l’unica riparazione possibile. Poiché il bimbo non potrà più avere una vita terrena quel bene tolto non può essere ridato; ma la vita della madre non deve ridursi solo a quel male, a quella caduta per quanto drammatica e profonda. La società stessa, le persone care, devono poter godere della vita che c’è anche se quella del figlio non tornerà nelle vesti umane che avrebbe potuto avere.

Imparare a portare la croce

Tutto questo processo di riconoscimento dei figli abortiti e della maternità negata, il cammino di riconciliazione con Dio e il perdono di se stessi comportano inevitabilmente l’esperienza del dolore. L’apostolo Giacomo diceva con una certa durezza: “Gemete sulla vostra miseria, fate lutto e piangete” (Gc 4,9)

Questa frase risuona molto forte nel cuore delle persone che hanno abortito. (…) le lacrime che continuano a versare ricordando le colpe passate diventano molte volte insopportabili.

(…) Pensare che si possa smettere di soffrire è un’utopia. Ci sarà sempre qualche forma di dolore. ma il dolore, pur essendo inevitabile, non dovrebbe essere inutile. Potrebbe aiutare e aiuta a redimere il nostro tempo, a purificare l’anima, a imitare Gesù che ha scelto la croce come strumento di salvezza e come passo preliminare alla risurrezione. (…) La croce però bisogna saperla portare. Bisogna portarla come l’ha portata Cristo.

Cuori spezzati, p.140-141

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CUORI SPEZZATI
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