Ancora oggi, in tarda mattinata, si sarebbe potuto sentire alla radio un qualche sottosegretario del governo italiano dichiarare che abbiamo (si riferiva sia all’Italia, evidentemente, sia all’Occidente)
un dovere morale nei confronti degli afghani che negli scorsi vent’anni hanno sostenuto la missione di pace internazionale; e un dovere morale soprattutto nei confronti delle donne, delle ragazze e delle bambine afghane.
Tre obiezioni iniziali
Dichiarazione melliflua e piacevole all’udito (non a caso è “la canzone del momento” in tutte le radio – e non solo…), ma nondimeno zeppa di approssimazioni e mezze verità, se non di “bugie diplomatiche”:
- Anzitutto il richiamarsi a grandi principî morali sembra poco congruente con il diffuso laissez-faire che sembra la tacita parola d’ordine di tutto il mondo di fronte alla restaurazione talebana: se questi signori sono il male assoluto, quello per combattere il quale avete letteralmente fatto tremare il cielo, tornate subito indietro e siate stavolta più efficaci (direbbe un poveruomo dal suo marciapiede di buonsenso).
- Se le cose invece non stanno così sembra lecito dubitare che quella dello scorso ventennio sia stata davvero una missione di pace: una missione di pace si ritira quando il suo scopo (la pace, si direbbe) sia stato conseguito e consolidato. Ciò permette anche di porre qualche non-onorevole (e quindi antipatica, ma forse ineludibile) domanda sugli “afghani che negli scorsi vent’anni hanno sostenuto…”: erano superiori agli avversari per numeri e per forze… che è successo?
- Quanto alle donne e al “dovere morale” nei loro confronti – cioè la tutela delle loro “libertà fondamentali” nella restaurazione talebana –, non si vede con quale moneta l’Occidente possa pensare di parlamentare a quella voce (come alle altre).
La lezione di Olivier Roy
La “questione femminile” è – insieme con le drammatiche immagini delle persone in caduta libera dagli aerei in partenza da Kabul – l’unico tema divulgabile a buon mercato nei talk show, ma la riluttanza ad affrontare la questione dei rapporti tra terrorismo e islamismo (nonché, più a monte, quella delle relazioni tra Islam e violenza) appiattisce la narrazione nel solito rozzo manicheismo de “la civiltà dei diritti contro la barbarie oscurantista”. Una specie di salsa BBQ dell’opinionismo: finché non ti chiedi che cosa c’è dentro puoi versarla abbondantemente su tutto.
L’alternativa sarebbe mettersi alla scuola di politologi esperti di paesi islamici, che per frequentazioni di lungo corso sappiano inquadrare sia la disfatta dell’esercito afghano, lasciato dalla missione internazionale a presidiare il Paese e sgominato in pochi giorni, sia le ricorrenti foto delle donne in gonna al ginocchio all’inizio degli anni ’70 del Novecento. Laurent Marchand ci ha reso in ciò un grande servigio pubblicando ieri su Ouest France una lunga e corposa intervista con Olivier Roy.
“Salvare le donne afghane”
A proposito del “gran tema” delle donne, con una lucidità che sfiora il cinismo il politologo ci dice che secondo lui la cosa passerà in cavalleria:
I talebani chiedono alle ambasciate di restare. Se si impegnano a non dare rifugio ad organizzazioni terroristiche internazionali, allora il loro governo sarà riconosciuto. E le donne afghane finiranno nel dimenticatoio: io credo dunque che offriranno delle garanzie sulla questione della sicurezza per avere mano libera all’interno del Paese.
Difficile fare pronostici particolari sul destino di Zarifa Ghafari, che della quota rosa nella nuova classe dirigente è diventata un po’ il simbolo: Roy non ne parla espressamente, e del resto nessuno può tutelare una persona dalla violenza di una mina vagante (o “lupo solitario” che dir si voglia), ma la tesi esplicita del politologo francese è che i talebani di oggi non siano quelli del 2001, e non da oggi.
Essi si sono evoluti, politicamente: sociologicamente non credo… c’è una continuità nella classe dirigente, poiché tutti i leader di oggi c’erano già ai tempi del mullah Omar, vent’anni fa. Per contro, però, possiamo pensare che si siano evoluti politicamente. Nel 2011 ci sono stati dei negoziati tra gli afghani, a Parigi, a Chantilly, e io facevo parte della delegazione francese. I talebani pure c’erano, all’ultima riunione: c’erano in un contesto di negoziato, perché hanno appreso la lezione del 2001. […]
In fondo, nel 2001 è stato l’11 settembre a condurre alla loro disfatta, altrimenti sarebbero rimasti sempre al potere. Contrariamente a quanto si è potuto far credere, l’intervento non c’è stato per salvare le donne afghane, ma per vendicare l’11 settembre e fare la pelle a Bin Laden.
Sotto lo smalto della “missione di pace”
Queste parole basterebbero a demolire la narrazione della “dottrina Wilson” (e dei suoi inevitabili aggiornamenti), secondo la quale il ruolo planetario degli Stati Uniti (e dell’Occidente Atlantico, a partire dalla “versione Reagan”) sarebbe la propagazione del sistema politico democratico (e di quello economico liberale): la guerra d’Afghanistan sarebbe stata invece, nelle intenzioni, una ingente dimostrazione di forza che nella propria grandezza doveva sfumare, fino a confondere, la propria natura di fondo – una rappresaglia.