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Greta Thunberg su Vogue: meno vestiti (ok, ma soprattutto più umanità)

Greta Thunberg

Shutterstock | Di MAURO UJETTO

Giovanna Binci - pubblicato il 23/08/21

Greta Thunberg sulla copertina di Vogue Scandinavia parla del nostro approccio sbagliato alla moda. Se è vero che gli abiti parlano della nostra identità, il fast fashion dice soprattutto che siamo infelici.

Credo che io e Greta Thunberg abbiamo in comune solo la G del nome. Lei fa sciopero ogni venerdì. Io ero la secchiona che approfittava della classe vuota per studiare per le interrogazioni dei giorni seguenti. Lei non compra vestiti da almeno tre anni, come si legge nell’ultima intervista per Vogue Scandinavia che l’ha messa in copertina. Io non resisto senza un giro in qualche centro commerciale nemmeno tre giorni. Male, molto male, lo so.

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Ammettiamolo: Houston, abbiamo un problema… Di shopping!

Non sono una negazionista del climate change, anzi. Credo fermamente nella necessità di cominciare a fare sul serio, di iniziare a fare “qualcosa“, che sia più concreto (e meno comodo) che prendercela con i ricchi, i petrolieri o in generale “il sistema”. Anche più concreto di uno sciopero. Si potrebbe partire proprio dall’armadio, ora che in piazza ci siamo andati e abbiamo detto quel che c’era da dire.

Non c’è bisogno di essere ambientalisti o ecologisti per ammettere che il consumismo è una brutta malattia e che, purtroppo, ne siamo affetti in molti. Prima che all’ambiente, il fast fashion e il consumo “usa e getta” in generale, nuoce gravemente agli essere umani. Bisogna prenderne atto per la conservazione della specie: la nostra, prima che tutte le altre che mai potremo salvaguardare.

Umanità da salvare

Comunque a volte credo che siamo già abbastanza estinti come “umani” senza dover aspettare che la temperatura mondiale salga di altri quattro gradi. Certo, nascondiamo tutto dietro a belle parole: l’aborto è rispetto, l’eutanasia è dignità, l’utero in affitto è amore e riempire il carrello di Zalando ogni settimana “tanto poi posso restituire senza pensieri” (ma non senza emissioni di CO2) è un sacro santo diritto perché la vita è così dura da questa parte del mondo che “me lo merito”, quel mini abito a fiori. Peccato che non se lo meriti l’ambiente e prima di lui, non se lo meritino i contadini impegnati nelle coltivazioni del cotone che non sanno come arrivare a fine mese o le donne che vivono in qualche fabbrica tessile in India senza tornare a casa dai propri figli (guardatevi il documentario “The true cost” per cominciare a farvi un’idea di quanto ci sia dietro al vostro “reso gratuito”).

È comunque dura stare in trincea quando puoi chiedere un armistizio ed essere Chiara Ferragni con una t-shirt a 9.99€ o le sponsorizzate di Facebook ti bombardano anche al bagno, ma questa è una guerra a tutti gli effetti (con tanto di morti come quelli del crollo dello stabilimento tessile Rana Plaza). 

Codice rosso

Comunque, Greta, alla domanda sull’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change che lunedì ha dichiarato un “codice rosso per l’umanità” affermando l’impellente necessità di ridurre sostanzialmente le emissioni di carbonio e il forte rischio che il riscaldamento globale aumenti di circa 1,5 gradi Celsius entro i prossimi due decenni si è scomposta molto meno della gente che ha commentato la notizia sui social dichiarando che non farà più figli per il loro bene (ve l’ho detta la mia teoria che ci estingueremo prima ancora della catastrofe climatica, no?). 

“Nessuna sorpresa”, ha dichiarato l’attivista incassando il colpo e poi ha continuato (sprezzante del pericolo che siamo pur sempre su Vogue: una pubblicità di Zara ogni cinque pagine e un vestito di H&M imperdibile in ogni editoriale):

“Se acquisti fast fashion, contribuisci a questa industria, la incoraggi a svilupparsi e a continuare il suo nefasto processo. Certo, capisco che per alcune persone la moda è una parte importante dell’espressione di sé e della propria identità”. Ha anche aggiunto che non si può ignorare l’impatto che un consumo poco consapevole ha sul Pianeta e anche “sugli innumerevoli lavoratori e comunità che vengono sfruttati in tutto il mondo affinché alcuni possano trarne vantaggio del fast fashion, che molti considerano un prodotto usa e getta”.

La moda è espressione di noi e il fast fashion dice che siamo infelici

Chi lo avrebbe detto che cominciamo ad avere in comune più di una semplice G, io e la Thunberg

La moda è espressione di noi, lo sottoscrivo. Il fast fashion, di conseguenza, è espressione della nostra profonda insoddisfazione e del fatto che, comunque ce la vendano quelli del reparto marketing (anche attingendo alle nobili motivazioni dell’empowerment o del green che spesso sono solo operazioni di greenwashing e femalewashing) nessun abito può darci ciò che stiamo cercando. Tantomeno la nostra identità. Quella dobbiamo trovarla altrove e allora anche il look e le scelte in fatto di moda saranno specchio di ciò che siamo e crediamo. E non ci sarà bisogno di cambiare abito ogni settimana in base a quello che ci dicono gli influencer. 

Qui, prima di fare gli ambientalisti, c’è da tornare umani. Il resto sarebbe una naturale, biologica, green, consapevole e zero waste conseguenza. 

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consumismoecologiamoda
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