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Ebrei e cristiani, le premesse (e le promesse) del dialogo

SYNAGOGUE

Massimo Valicchia | NurPhoto via AFP

Il 17 gennaio 2016 il Papa visita la Sinagoga di Roma.

Jean Duchesne - pubblicato il 08/09/21

Le grandi feste giudaiche di settembre offrono l’occasione per fare il punto sul rinnovarsi delle relazioni fra Israele e la Chiesa.

I nostri “fratelli maggiori”, come li salutò san Giovanni Paolo II nel 1986 in occasione della sua storica visita alla Grande Sinagoga di Roma, imboccano in questi giorni un ciclo di grandi feste: Rosh Ashannàh, Yôm Kippûr e Sukkôt

Sono nomi un po’ misteriosi, eppure il contenuto di quelle celebrazioni non ci è estraneo, e anzi ci invita a sondare quel che Jacques Maritain chiama “il mistero di Israele”, la cui percezione da parte cristiana è andata approfondendosi durante il secolo scorso. 

Il senso delle feste 

Non ci è possibile spiegare a fondo l’intero significato di queste feste. Se ce ne venisse la curiosità, poiché siamo “innestati” su Israele (secondo l’espressione di san Paolo nella lettera ai Romani 11,17), bisogna lasciare agli ebrei stessi non soltanto il compito, ma pure la libertà di farlo: è una cosa che spetta a loro. Allo stesso modo è il caso di lasciare che sia l’Apostolo, e con lui la Chiesa tutta – e non degli specialisti in “scienze umane” – esporre e illustrare il mistero di Cristo. Come dice sempre san Paolo subito dopo al pagano battezzato di Roma, «non sei tu che porti la radice: è la radice che porta te!» (Rom 11,18). 

Basterà qui ricordare che Rosh Ashannàh è il Capodanno ebraico, che Sukkôt è una festa del raccolto divenuta nel tempo commemorazione dell’uscita dall’Egitto, e che tra le due c’è Yôm Kippûr, il Giorno del Grande Perdono. Quest’ultima denominazione è molto suggestiva: si tratta di commemorare la misericordia dell’Onnipotente dopo che il popolo ha adorato il vitello d’oro mentre Mosè sul Sinai riceveva la Legge. Sukkôt ricorda la peregrinazione degli ebrei nel deserto sotto la protezione divina. Rosh Ashannàh, invece, non ha una precisa origine biblica e si è imposto nella tradizione rabbinica posteriore a Cristo. 

Le radici e la fonte 

La cosa non fa che rendere ancora più interessante questo Capodanno, perché esso rivela che il giudaismo non si è congelato e cristallizzato a duemila anni fa: se ne affina e se ne rinnova dunque l’immagine, che non verrà più analogata alle radici, nascoste sotto terra, invisibili e troppo facilmente dimenticate, ma alla sorgente, che non si è estinta e resta viva, poiché Dio resta fedele alle sue promesse – come Paolo (tanto giudeo quanto cristiano – si veda Fil 3,5-6) ripete ai Romani (9,4.6; 11,1.29). 

Rosh Ashannàh ricorda al contempo l’anniversario della creazione del mondo e l’annuncio del giudizio finale. È un invito all’esame di coscienza, alla riconciliazione, al digiuno, alle astinenze, alla lettura della Legge e dei Salmi, agli uffici sinagogali, ai pasti in famiglia con ogni sorta di rito e di cibo, che hanno un valore memoriale e simbolico. Seguono dieci giorni di penitenza, fino al Kippûr, in cui l’espiazione dei peccati, la meditazione sulla condizione umana e sulla bontà divina traboccano in una gioia che si esprime cinque giorni più tardi in occasione dei Sukkôt, in cui si rendono azioni di grazie per i benefici ricevuti nell’anno. 

La riscoperta del Primo Testamento 

L’interesse dei cristiani per la pietà e per la spiritualità giudaica, al fine di meglio ricevere e comprendere la loro propria fede, è senza dubbio uno dei progressi del XX secolo. Esso è stato nutrito nei cattolici dalla riscoperta del Primo Testamento, che non poteva essere abbandonato a una critica accademica incapace di riconoscervi la Parola vivente di Dio, e che invece non vi trovava altro che la morta lettera di documenti antichi (e di dubbia autenticità). Questa riappropriazione delle Scritture ha ispirato i rinnovamenti teologici (il ritorno ai Padri della Chiesa, le cui opere sono spesso commentarî biblici, e alla liturgia). 

È cosa notevole che questo ritorno alle fonti non si limiti alla religione di Israele prima dell’avvento di Cristo, ma prenda in considerazione l’esperienza delle comunità ebraiche contemporanee. Nella sua versione più disumana – la Shoàh nazista –, l’antisemitismo è risultato decisamente incompatibile con il cristianesimo. Il padre De Lubac lo scriveva e lo diffondeva clandestinamente durante la Seconda Guerra Mondiale. Nelle sue conferenze all’Institut Catholique di Parigi nel 1950, nelle quali invitava i cattolici a immergersi nella Bibbia per ravvivarvi la loro fede, il padre Bouyer non esitò a sostenere che i cristiani hanno sempre bisogno degli ebrei per ricevere l’eredità di cui si proclamano portatori. 

Parole e atti significativi 

Tutto ciò porta alla dichiarazione Nostra Ætate del Concilio Vaticano II, nel 1965, che «raccomanda la conoscenza e la stima reciproche», nonché alle parole e agli atti di san Giovanni Paolo II, tra cui il “mea culpa” per le persecuzioni inflitte ai giudei da alcuni cristiani nel corso dei secoli. Bisogna aggiungere a questo la decisione presa da san Paolo VI, nel 1974, di affidare le relazioni con il giudaismo al Segretariato per l’Unità, e dunque all’ecumenismo, e non al dialogo interreligioso (come avviene per musulmani e buddisti). 

Nel 2015, una commissione teologica del Vaticano riconosce anche che gli ebrei conservano «una parte nella salvezza» anche se non vedono in Gesù di Nazaret il Messia promesso, e che i cristiani da parte loro devono testimoniare davanti a loro la propria fede, devono farlo «con umiltà» e senza cercare sistematicamente di farli convertire. L’idea è che alla fine dei tempi il popolo di Dio sarà “Israele e la Chiesa”, quando quest’ultima avrà in qualche modo fatto il pieno di pagani battezzati, conformemente alla visione di san Paolo (Rom 11,25). 

Aperture reciproche 

È importante sottolineare che gli sforzi di avvicinamento non sono unilaterali. I giudei vi si sono aperti: Jules Isaac è una figura esemplare: celebre autore (con Albert Malet) di manuali di storia, sfuggì per poco alla Shoàh e vide che l’antisemitismo era stato facilitato dal disprezzo dei cristiani per i giudei (malgrado il Magistero avesse sempre riprovato l’opinione che la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele in ragione del suo presunto essersi reso indegno col rigettare e con l’uccidere il Messia). Avrebbe incontrato prima Pio XII, poi Giovanni XXIII, e sarebbe stato ascoltato. Ebreo ma non osservante, ha studiato i vangeli e non vi si è trovato spaesato: la sua richiesta di riconoscimento si unisce alla scoperta, da parte dei cristiani, del giudaismo reale. Egli partecipò, col grande rabbino Jacob Kaplan, eroe della resistenza, alla creazione dell’Amitié judéo-chrétienne de France, nel 1948. 

In senso più lato, i nostri “fratelli maggiori” sembrano trovarsi ormai di fronte a una duplice sfida: da una parte preservare, con la loro cultura religiosa, la loro identità distinta e singolare; dall’altra rispondere alla vocazione di popolo testimone del disegno dell’Eterno contribuendo al bene comune dell’umanità, dialogando e cooperando con altre credenze e istituzioni. Oggi che l’antisemitismo è più esplicitamente condannato (benché non sia, purtroppo, scomparso), gli ebrei non devono più trincerarsi nei ghetti, dove nessuno più li relega. 

La strada è ancora lunga 

Dobbiamo però restare coscienti del fatto che agli ebrei una questione spinosa, simmetrica a quella sollevata dall’intuizione che la loro religione – in un senso profondo – non è altra dalla nostra: i cristiani sono dei goyîm (dei “gentili”, dei pagani) come gli altri, oppure anch’essi hanno parte all’Alleanza in quanto professano di accogliere la Legge di Mosè? E gli ebrei battezzati restano figli di Israele? È la provocazione che fece sorgere il cardinal Lustiger. Per gli uni e per gli altri resta – grazie a Dio – della strada da fare. La Storia non è finita. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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