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“Mio figlio è il terrorista che ha ucciso tua figlia, vorrei conoscerti”

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Photo by Philippe LOPEZ / AFP

Annalisa Teggi - pubblicato il 08/09/21

Si apre oggi il processo sugli attentati a Parigi del 2015. Nel frattempo è accaduto un incontro impossibile: il padre di un terrorista del Bataclan ha voluto incontrare il padre di una vittima e dal 2017 portano insieme il peso di una ferita incurabile.

Al via il processo per le stragi di Parigi del 2015

Sono passati quasi 6 anni dagli attentati che insanguinarono Parigi nella notte del 13 novembre 2015. Oggi comincia il processo imponente per far luce su quelle stragi simultanee che fecero 137 vittime. Saranno presenti 330 avvocati e 1800 tra sopravvissuti e parenti delle vittime. Di fronte alla giustizia si presenteranno 11 imputati tra cui Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto tra i dieci membri del commando armato responsabile delle stragi.

Accanto al percorso ufficiale della giustizia, qualcosa di più nascosto e clamoroso è successo in questi anni. Due padri si sono incontrati, entrambi hanno perso i figli al Bataclan ma una fu vittima del furore jihadista, l’altro era tra le fila dei terroristi uccisi dalle forze dell’ordine francesi.

BATACLAN PARIS

L’avventura dell’incontro impossibile tra due padri

Oltre le sbarre dell’odio e delle categorie apparentemente invalicabili di vittime e carnefici si sono inoltrati due padri, Georges Salines e Azdyne Amimour. Padri, sì, proprio quelli che Peguy definisce i più grandi avventurieri dell’era moderna. E nel caso della vicenda che li riguarda siamo anche oltre l’avventura, è proprio una scalata ad altezze vertiginose.

Senza altre premesse, partiamo dal gesto più scandaloso. Azdyne Amimour ha 72 anni ed è di origini algerine, ha un negozio di vestiti in Belgio e a meno di due anni dalla mattanza del Bataclan …

Una mattina di febbraio del 2017, Amimour scrive un’email a Georges Salines: «Vorrei conoscerti». «Che cosa vuoi?», risponde lui, incredulo. «Parlarti, mi sento anche io vittima di mio figlio».

Da Vanity Fair

Sono due uomini diversi e uguali. Azdyne è un commerciante di fede musulmana, Georges è medico e si definisce ateo “dalle radici cristiane”. Entrambi hanno perso un figlio di 28 anni, nello stesso luogo. Lola, la figlia di Georges, fu tra le vittime del Bataclan e Samy, il figlio di Azdyne, era tra i terroristi che seminarono morte in quel teatro parigino e fu ucciso dalla polizia.

Come ci si sente a essere contattati dall’assassino della propria figlia? Ma ancora più significativo è notare che l’innesco di questo incontro (quasi) impossibile parte da chi si trova dal lato ‘sbagliato’ della storia. Chi sente l’urgenza di scalfire il muro di odio provocato dal terrorismo è il padre di un ragazzo diventato braccio armato dell’Isis.

“Avevo già perso tutto”, dice Azdyne. “Ero dalla parte sbagliata della storia”, prosegue. “Accettando di incontrarmi, Georges aveva molto più da perdere”, aggiunge Azdyne. “È un uomo conosciuto dai media, presidente di un’associazione di vittime che appare in radio e in televisione, e dunque cosa penserà di lui la gente quando scoprirà che ha incontrato il padre di un terrorista?”. 

Da Vatican News

Il padre di un terrorista può piangere?

Si sono incontrati una prima volta in un bar, e poi molte altre volte sempre in luoghi pubblici e mai uno a casa dell’altro. La ferita che li unisce, li separa anche. Sono un paradosso vivente. Anche il loro primo incontro inconsapevole fu altrettanto paradossale. Il primo posto in cui Azdyne e Georges furono vicini senza saperlo fu l’obitorio, dove entrambi furono chiamati a riconoscere il cadavere dei propri figli. Corsero lì, colti entrambi alla sprovvista dallo sconcerto di sapere degli attentati di Parigi: da una parte la voce “tua figlia è tra le vittime”, dall’altra “tuo figlio è uno dei terroristi”.

Lola, la figlia di Georges, fu colpita a morte durante il concerto a cui assisteva al Bataclan. Lavorava in una casa editrice per bambini. Suo padre le aveva parlato nel pomeriggio dopo che era stata in piscina. E poi:

Ci hanno detto che la sua faccia era serena, che era rimasta molto tempo a pancia in giù sul pavimento del Bataclan. Sembrava dormire, ci ha fatto bene vederla. Da quel giorno, tutte le mattine fino al 27 novembre, la data dei funerali ufficiali, siamo andati all’ospedale ad assistere al lavaggio del suo corpo.

Da Vanity Fair
–

Invece erano molti mesi che il signor Amimour non vedeva né parlava con suo figlio Samy, fuggito in Siria per affiliarsi a Daesh. Un ragazzo che nel percorso difficile di interrogarsi sulla propria identità aveva incontrato la voce di un imam estremista, in cerca di giovani da addestrare per l’Isis. Suo padre aveva anche tentato di andare a riprenderselo in Siria e si ritrovò di fronte a uno zombie, alla vittima di un lavaggio del cervello degli jihadisti di fronte a cui non aveva potuto opporre niente. Forse lo vide già morto allora. E poi il signor Amimour ha visto Samy sul tavolo del medico legale all’indomani della notte di stragi del 13 novembre 2015:

Siamo entrati in una stanza dell’ospedale lontana da tutti, era lo stesso ospedale delle vittime. C’era mio figlio senza vita, l’ho salutato e gli ho dato un bacio prima che lo mettessero nella bara. Al suo funerale siamo andati solo noi della famiglia e qualche amico stretto, nessuno sa dove si trova la sua tomba, non c’è scritto il suo nome.

Da Vanity Fair

Il silenzio di un obitorio e anche la lunga trafila della giustizia non sono bastati al ruggito sordo e disperato che covava nel cuore di questi due padri.

Ci restano le parole

La logica del terrore abita nel nostro quotidiano, ci sono attentati anche in certi sguardi scambiati nei cortili di condominio o nelle sale d’attesa degli ambulatori. Non sempre ci scappa il morto, ma uccidono. La forza dell’odio seminato a suon di stragi dai terroristi ha un alleato anche nella zona d’ombra di ogni cuore. L’odio è un fuoco che si accende svelto e divampa, è la valvola di sfogo più veloce e incandescente per tutti ciò che stride, che non capiamo, che non rispetta le nostre attese.

Il gesto di questi due padri che hanno avuto il coraggio di guardarsi in faccia e raccontarsi il reciproco abisso di dolore non scrive solo un capitolo di speranza nel grande libro sul terrorismo internazionale, ma è una bussola di quotidiana missione. Non è dovuto che il padre di una vittima ascolti le ragioni o le confessioni del padre di un assassino, ma se lo fa un grande ribaltamento è possibile. Dichiara Georges Salines:

In un certo senso anche lui [il padre di Samy – Ndr] è un superstite di quell’orrore, solo che non ci avevo mai pensato. Avevo paura di guardarlo negli occhi, ma volevo incontrarlo, magari mi avrebbe aiutato a capire di più quello che ci è successo. Da sempre credo nel dialogo e sentivo che era arrivato il mio momento di sedermi ad ascoltare. 

Da Vanity Fair
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L’immedesimazione nell’altro è l’avventura dei veri avventurieri. Quando si parla del valore del dialogo non si dovrebbe intendere la capacità di spiegarsi, ma la possibilità di immedesimarsi. Spiegato lo è un lenzuolo steso al sole e appena lavato, chiaro e liscio. L’umano è molto diverso da un lenzuolo e ha pieghe (e piaghe) che meritano solo l’azzardo di Tommaso, quando piantò il dito nel costato di Gesù.

Il dolore non si spiega, non si cura, non si lava via. Può essere portato. Georges Salines e Azdyne Amimour si sono incontrati spesso nei bar, come sulla soglia ciascuno della propria ferita non rimarginata. Hanno scritto un libro sui loro incontri fatti di tante parole, Non ci restano che le parole. Sì, ma sono le parole dette in faccia, a cui ciascuno arriva facendo dei passi fisici ed emotivi. Non sono dissertazioni o chiacchiere, sono incontri. Sono la fatica di non mandare avanti la cavalleria dei flussi di coscienza egocentrici o della smania di vendetta, e lasciano intravedere l’ipotesi che inoltrandosi nel mistero di un proprio simile-così-diverso siano accarezzate le zone buie che ci ristagnano dentro.

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