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Suor Shahnaz Bhatti, una testimonianza cattolica dall’Afghanistan

AFGANISTAN

REMKO DE WAAL/AFP/East News

Aiuto alla Chiesa che Soffre - pubblicato il 22/09/21

Suor Shahnaz Bhatti è una religiosa della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, originaria del Pakistan. È stata in missione in Afghanistan fino al 25 agosto scorso quando, scortata dall’Esercito Italiano, è riuscita a lasciare il Paese. Aiuto alla Chiesa che Soffre ha raccolto la sua testimonianza.


Qual è la sua congregazione e che tipo di missione ha?
Appartengo alla Congregazione internazionale delle suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. La nostra missione è il servizio spirituale e materiale dei poveri secondo lo stile di San Vincenzo de’ Paoli, grande apostolo della carità.

Quali sono state le motivazioni della sua presenza in Afghanistan?
Come Congregazione abbiamo aderito al progetto “Pro bambini di Kabul”, nato nel 2001 per rispondere all’appello di Papa Giovanni Paolo II «salvate i bambini di Kabul», e al quale ha risposto con generosità la vita religiosa in Italia attraverso l’USMI (Unione Superiori Maggiori d’Italia). Personalmente ero da due anni a Kabul insieme ad altre due suore, suor Teresia Crasta della Congregazione di Maria Bambina e suor Irene della Congregazione delle Suore della Consolata. La comunità di Kabul infatti è intercongregazionale. Avevamo una scuola per bambini con ritardo mentale e con la sindrome di Down dai 6 ai 10 anni e li preparavamo ad inserirsi nella scuola pubblica. Con noi collaboravano insegnanti locali, custodi e cuochi. Con l’aiuto delle autorità italiane siamo riuscite a portare in Italia sia loro, in qualità di nostri collaboratori, sia le rispettive 15 famiglie. Sono stati ospitati dalle Congregazioni religiose che sono state davvero molto generose e accoglienti. Le famiglie dei bambini nostri alunni, che continuano a chiamare e a chiedere aiuto, sono rimaste nelle loro case in pericolo, come potete immaginare.

Vuole descriverci una delle sue ordinarie domeniche in territorio afghano?
La domenica non è riconosciuta come festività religiosa, era un giorno come gli altri. Le pratiche religiose e la santa Messa potevamo celebrarle nell’Ambasciata italiana, in modo riservato.

Quali sono state le difficoltà maggiori incontrate durante la sua missione?
La prima difficoltà è stata imparare la lingua locale perché in Afghanistan non imparano l’inglese e non si può neppure insegnare. Altra difficoltà è stata entrare nel loro mondo, nelle loro abitudini, nella loro mentalità per poter dialogare ed essere vicini. La fatica più grande è stata quella di non potersi muovere liberamente perché si doveva essere sempre accompagnate da un uomo. Io, che dovevo sbrigare pratiche necessarie con le banche o in altri uffici, dovevo essere accompagnata da un uomo del luogo. Due donne non significano niente e naturalmente non contano. La sofferenza che mi ha più fortemente segnato, tuttavia, è stata quella di vedere le donne trattate come cose. Un dolore indescrivibile è stato quello di vedere le giovani che dovevano sposare la persona decisa dai capi della famiglia contro la volontà della giovane stessa.

Nell’Afghanistan che ha preceduto il ritiro dei militari occidentali la libertà religiosa era rispettata?
No, perché per gli afghani gli stranieri occidentali sono tutti cristiani, perciò eravamo sempre controllati, nessun segno religioso era consentito.  Noi suore dovevamo vestire come le donne locali e senza il Crocifisso che ci avrebbe distinte.

Come ha vissuto lo scorso agosto, cioè il periodo fra il ritiro delle truppe occidentali e la sua partenza per l’Italia?
È stato un periodo molto difficile, eravamo chiuse in casa e abbiamo avuto paura. Da più di un anno eravamo solo due. Appena è stato possibile la suora che era con me è partita e io sono rimasta da sola fino alla fine. Ho aiutato le suore di Madre Teresa, nostre vicine, a partire con i loro 14 ragazzi portatori di handicap grave e senza famiglia, a imbarcarsi nell’ultimo volo per l’Italia prima degli attentati. Se non si fossero messi in salvo i ragazzi non saremmo partiti. Dobbiamo ringraziare la Farnesina e la Croce Rossa Internazionale che ci hanno aiutato ad arrivare all’aeroporto, e la presenza di padre Giovanni Scalese, che rappresentava la Chiesa Cattolica in Afghanistan, il quale non ci ha lasciato fino a quando non siamo partiti. Un viaggio difficile da Kabul all’aeroporto, due ore ferme, sparatorie, ma alla fine siamo arrivati.

Da religiosa cattolica e da donna come valuta il tentativo occidentale di “esportare la democrazia” in terra afghana?
Una mentalità non si cambia con i buoni propositi, io credo che un progetto culturale con le nuove generazioni possa cambiare la mentalità. Lo stiamo vedendo con le giovani donne che non vogliono rinunciare ai loro diritti di libertà, ma occorre la formazione delle nuove generazioni. La democrazia non si esporta, si coltiva.

Cosa vorrebbe chiedere ai responsabili politici dei paesi occidentali più coinvolti in Afghanistan?
Vorrei chiedere di aiutare questo paese a conseguire la vera libertà, la quale è rispetto, promozione umana e civile, ricordando che il fanatismo religioso porta divisione e nemici, che nessun popolo è migliore di un altro e che la convivenza pacifica porta benessere per tutti. 

Come possiamo aiutare la popolazione?
Possiamo aiutarli a essere persone libere attraverso la formazione culturale e civile, facilitando l’accoglienza quando decidono di lasciare il paese ma anche, quando le autorità lo consentiranno, stando con loro. Io sarei la prima a ripartire. In questo momento di emergenza potremmo essere presenti nei campi profughi confinanti e non permettere che i piccoli muoiano di fame, sete e malattie che si potrebbero curare con facilità. Occorre inoltre considerare la donna come una persona degna di diritti e di doveri, ma persona e non una cosa. 

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