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Come non fare della correzione fraterna un fratricidio

KAIN ZABIJA ABLA

Wikipedia | Domena publiczna

Kain zabija Abla, Abraham Bloemaert (1564-1651), Muzeum Narodowe w Warszawie

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 20/01/22

Sembrerebbe facile e piacevole, mentre è tra i più gravosi e difficili comandi di Cristo: non a caso, per la sua ineluttabilità e per quella fatale tendenza a diventare “deiezione fraterna”, è stata oggetto di appositi trattati.

Così una vecchia mai stata moglie,
senza mai figli, senza più voglie, 

si prese la briga (e di certo il gusto)
di dare a tutte il consiglio giusto. 

Fabrizio De André, Bocca di rosa, 1967 

Il diciottesimo sermone del Quaresimale di Paolo Segneri, storica gloria della Compagnia di Gesù (e della città di Nettuno), comincia così: 

Fra quanti precetti ne furono inculcati da Cristo come più proprii dell’evangelica legge, niuno io credeva che dovess’essere udito con maggior godimento ed eseguito con maggior generosità quanto questo della correzione fraterna. Perocchè chi non sa quanto sia grande l’inclinazione che ha l’uomo a riprendere gli altrui falli? Per quanto il sole sia rimoto di sito o splendido di fattezze, si è finalmente il guardo umano avanzato a conoscervi sozze macchie: le ha contate con minutezza, le ha pubblicate con applauso, le ha censurate con fasto; e così ha dato a divider chiaramente quanto s’inganni chiunque, per essere o in sublimissimo posto di dignità o in antichissimo credito d’innocenza, speri di aversi felicemente a sottrarre da sì rigido sindicato. 

E nondimeno oh quanti pochi tra’ fedeli si trovano che adempiano un tal precetto! Non mancano oggi nel cristianesimo nuovi Davidi che rapiscano le altrui mogli: eppur dov’è che a correggerli scomparisca qualche Natan? […] Ah! che il gran talento c’ha l’uomo di condannare le malvagità del suo | prossimo, tutto si sfoga o ne’ foglietti segreti o nelle conversazioni dimestiche o ne’ libelli famosi, i quali vogliono più ad irritare chi pecca che ad emendarlo: laddove a fronte scoperta non v’ha chi ardisca di rappresentare ad alcuno le sue lordure, ma tutti, a guisa di guardiani infedeli, gridiamo al ladro quando ha già voltate le spalle. 

Paolo Segneri S.I., Quaresimale, Milano 1845 (1ª ed. 1679), 164-165 

Il fallimento del migliore amico

Si direbbe che il gesuita sarebbe stato d’accordo col cantautore genovese, e in un certo senso a tutti noi sembra di esserlo con entrambi… salvo che il famoso predicatore accenna al paradossale amore degli uomini per la “deiezione fraterna”, più che per la correzione fraterna. E lo si capisce, se ci guardiamo onestamente nel cuore: correggere veramente qualcuno significa aiutarlo a diventare migliore di com’è, quindi forse anche migliore di noi, laddove in realtà ci basterebbe molto meno di questo per guardarci bene dall’aiutarlo veramente – ci basterebbe che avessimo anche solo la percezione del suo accorciare le distanze nei nostri riguardi, nei riguardi della nostra felicità, della nostra pretesa autorealizzazione. In realtà «nessuno – lo disse da par suo Groucho Marx – è completamente infelice per il fallimento del suo migliore amico». 

Segneri non poteva saperlo, nel XVII secolo, ma la rilevanza morale della “deiezione fraterna” sarebbe cresciuta all’inverosimile con i (cosiddetti) social: i “foglietti segreti” sono diventati le chat, le “conversazioni dimestiche” i thread e il booklet più famoso del mondo è quello dove si va a spiare (e a rubare e/o invidiare) le faces (e le vite) degli altri. Che spazio può esserci, in questa fiera delle vanità, per una merce tanto rara e cara quanto la correzione fraterna? 

Tutto quanto abbiamo appena richiamato ci aiuta a capire perché in passato abbondasse tanta letteratura, in merito alla correzione fraterna, e perché tanto spesso essa sentisse di dover affrontare il problema se davvero la correzione fraterna sia un precetto, ossia se tutti siano tenuti a praticarla.

Ma ci mancherebbe – sogghignerebbe il web editor di qualche sito sedicente cattolico –: noi abbiamo fatto già dieci correzioni fraterne, negli ultimi 12 mesi, con tanto di petizione pubblica da sottoscrivere e bollettino per i versamenti (a noi – deducibili, si capisce); e in aggiunta abbiamo già promosso, nello stesso lasso di tempo, quattro suppliche filiali, cioè la stessa cosa ma rivolta ai preti, ai vescovi e al papa. 

E lo si può fare? 

Come no! – riparte con la risposta in canna –: San Tommaso, II-IIæ, q. 44 a. 4 ad 3! 

«Presumere di essere in modo assoluto migliore del proprio prelato è un atto di presuntuosa superbia. Ma stimarsi migliore in qualche cosa non è presunzione: poiché nessuno in questa vita è senza qualche difetto. – Si deve anche notare che quando un suddito ammonisce con carità il suo prelato, non per questo si stima da più di lui: ma offre un aiuto a colui che, a detta di S. Agostino, “quanto si trova più in alto, tanto si trova in più grave pericolo”».

È vero, ma trattando di quella particolare correzione fraterna che oggi va di moda chiamare “supplica filiale” san Tommaso redige un articolo ben più articolato e sfumato, il cui cuore resta il respondeo

Non spetta ai sudditi nei riguardi del loro prelato la correzione che è, mediante la coercizione della pena, un atto di giustizia. Ma la correzione fraterna che è un atto di carità spetta a tutti nei riguardi di qualunque persona, verso la quale siamo tenuti ad avere la carità, quando in essa troviamo qualche cosa da correggere. Infatti l’atto che deriva da un abito o da una facoltà abbraccia tutte le cose che sono contenute sotto l’oggetto di codesto abito o potenza: la percezione visiva, p. es., abbraccia tutte le cose colorate contenute sotto l’oggetto della vista.

Siccome però l’atto virtuoso deve essere moderato dalle debite circostanze, nelle correzioni che i sudditi fanno ai loro superiori si deve rispettare il debito modo: essa cioè non va fatta con insolenza né con durezza, ma con mansuetudine e con rispetto. Ecco perché l’Apostolo ammonisce: «Non rimproverare l’uomo anziano, ma rivolgigli la tua esortazione come a un padre»; e Dionigi rimprovera il monaco Demofilo, perché aveva corretto senza rispetto un sacerdote, percuotendolo e cacciandolo dalla chiesa.

«Sè, vabbe’… – par di sentire il web editor –: e allora che gusto c’è? Chi ce lo fa fare?». Ottima domanda: chi ce lo fa fare? Tommaso aveva dedicato i primi 2 articoli della medesima quæstio a rispondervi: ce lo fa fare la carità, (se c’è), e l’Angelico aggiunge alla fine del secondo respondeo

[…] Ora, la correzione fraterna è ordinata all’emendazione dei fratelli. Perciò essa è di precetto in quanto è necessaria a codesto fine: non già nel senso che si debba correggere il fratello che sbaglia in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo.

Un trattato secentesco sulla correzione fraterna

Appena tre anni prima della pubblicazione della prima edizione del Quaresimale del padre Segneri, ossia nel 1676, l’allora quarantenne gentiluomo francese Trotti de La Chétardie dava alle stampe un accurato pamphlet ascetico-morale che dedica ben 52 capitoli e più di 450 pagine a un “Trattato della correzione fraterna”. Date le premesse che abbiamo addotto, forse non stupirà la prolissità dell’opera, i cui primi capitoli sono appunto dedicati a ribadire quanto sia stringente il comando di praticare questa difficillima missione: motivo di consolante stupore si potrà invece ancora trovare nel fatto che, a distanza di tre secoli e mezzo, queste opere siano sopravvissute alle sabbie del tempo, laddove fatichiamo a rintracciare i “libelli famosi” che sbandieravano Urbi et Orbi i difetti di questi e di quelli. La ragione profonda è che questi opuscoli, per quanto “famosi”, vanno rubricati sotto la voce “pettegolezzi”, mentre quelle opere, benché meno “di grido”, trattano una materia che riguarda l’uomo di ogni epoca e latitudine. 

Si può avanzare con verità – sostiene La Chétardie all’inizio del capitolo VI – che se tutte le correzioni fatte da parte di tutti quanti hanno il diritto di farne sono spesso così poco utili, e anzi perfino nocive, normalmente la ragione va rinvenuta nel fatto che non vengono fatte con lo spirito con cui si è obbligati a farle. 

Trotti de La Chétardie, Traité de la correction fraternelle, Paris 1676, 50 

E rifacendosi ad Agostino aggiunge: 

Non si correggono mai bene i fratelli […] se non quando si è mossi da una carità completamente sincera, vale a dire amando sinceramente quelli che si vogliono correggere, e più per renderli migliori che per dar loro un dispiacere. 

Ivi, 51 

Sant’Agostino, san Gregorio Magno e Ugo di San Vittore 

Poche pagine più in là, La Chétardie richiama un paio di notevoli raccomandazioni del Doctor Gratiæ

Il primo di questi principî si vede nella lettera a Pascenzio e nella lettera 109, laddove il grande padre della Chiesa dice che il vantaggio che un uomo può trarre rispetto a un altro uomo dall’essere o più sapiente o più nobile di lui non lo rende più felice, ma che l’uno e l’altro sono felici quando seguono con tutto il cuore i lumi della verità. Vale a dire che un uomo con più brillantezza, più dignità, natali migliori e migliore scienza di un altro non è felice fino a quando di quei vantaggi non si serve per seguire con fedeltà integra e intera quel che la verità gli prescrive, e per aiutare gli altri a seguirla con la medesima fedeltà. […] 

Il secondo principio si trova nella lettera 269 a Nebridio, dove dice che nessuno può innalzare gli altri a uno stato di perfezione in cui egli stesso sia stato elevato se non abbassandosi, in un certo senso, fino allo stato donde vuole farli uscire. […] 

Sant’Agostino accusa sé stesso di aver mancato contro questi due principî in una correzione che aveva fatto a un Vescovo con un po’ troppa | severità, e con albagia indegna di un uomo saggio. «Confesso – dice nella stessa lettera, scritta a un amico – che ho mancato di previdenza e di moderazione nel riprendere un mio confratello vescovo. È stato indegno di me usare contro di lui la severità che ho usato. Non ho considerato con la debita attenzione che era mio fratello e che io ero il suo, e che aveva la mia stessa dignità. Ti scongiuro pertanto di spendere con lui qualche credito di carità, e di indurlo a usarmi più umanità, perdonando la mia colpa, di quanta ne abbia usata io nello scrivere contro la sua persona». 

Ivi, 72-76 passim

L’excursus patristico di La Chétardie prosegue nel capitolo XVI, nel quale si legge: 

San Gregorio e Ugo di San Vittore ci offrono un’idea tanto edificante e pia, del temperamento che bisogna adottare nella correzione fraterna, per non farla né troppo lassa né troppo rigida, che ho creduto di doverla riportare qui pari pari, per portare qualche lume sulla difficoltà di individuare e di adottare quello stile. 

I due padri convengono entrambi sulla necessità di essere dolci e | severi in occasione della correzione fraterna, e spiegano ammirevolmente come accordare la severità del volto, dell’espressione e del gesto, con una perfetta dolcezza che resti in fondo al cuore. 

Il primo, per illustrare il proprio pensiero sull’argomento, si serve dell’esempio di Giuseppe riguardo ai fratelli e di Mosè nei confronti del popolo; l’altro di quello di Gesù Cristo quando, quel giorno, di lui dissero che tutti servono prima il vino buono e poi, quando la gente è alticcia, quello meno buono, ma che con lui si era riservato per la fine il vino migliore. 

Giuseppe e Mosè, dice san Gregorio, sono due eccellenti modelli, nonché due esempi assai toccanti del temperamento che dobbiamo adottare nella correzione fraterna per | evitare l’eccesso di severità o di lassismo. 

Il degnissimo patriarca, dice questi cominciando da Giuseppe, essendo completamente pieno di quel saggio discernimento che bisogna fare tra quel che possiamo lasciar trasparire di fuori per le persone che vogliamo riprendere e quello che dobbiamo preservare in fondo al cuore a loro riguardo, trovò il segreto di rendere utili ai suoi fratelli sia la dolcezza sia la severità. Aveva sempre conservato in memoria il ricordo della loro colpa passata per farne loro una correzione utile, ma perché il proprio risentimento non compromettesse il frutto di questa correzione prese risolutamente nel suo cuore la decisione di perdonare il torto subito. […] 

Aveva per loro un affetto pieno di tenerezza che occupava tutto il suo animo, e tuttavia – per occultare strategicamente questo af|fetto – non parlava e non faceva parlare loro se non con la severità che giudicava necessaria per farli rientrare in loro stessi. […] 

Poiché non poteva però sopportare oltre la piaga che la pietà apriva nel suo petto, e che la piena del suo amore trovasse nei propri occhi una cortina che l’arginasse, il suo amore prevalse sulla severità e le lacrime fecero riconoscere in lui un fratello pieno di tenerissimo affetto, dopo essere penetrato nella mente dei suoi fratelli come un signore intrattabile. […] | […] 

Quanto a Mosè, aggiunge, egli ha custodito tanto religiosamente le regole della verità e della carità, per temperare dolcezza e severità nelle correzioni fraterne di cui il popolo di Dio necessitava, che non si potrebbe né ammirare né imitare adeguatamente il suo esempio. 

Egli li ha amati a tal punto da esporre sé stesso per loro all’indignazione di Dio, per ottenere loro la sua misericordia, e tuttavia li ha sferzati così vivamente per le colpe che avevano commesso contro Dio che Dio stesso, pur avendogli detto che li perdonava, non omise tuttavia di ucciderne un grandissimo numero, per insegnare ai superstiti l’importanza di non commettere più simili colpe. 

Questo raro ambasciatore di Dio compì tanto divinamente il compito che Dio gli aveva affidato che se da un lato si mostra invincibile nel sostenere gli interessi del Signore, egli si rende d’altro canto inimitabile nel rappresentare | presso di lui quelli del popolo. […] | […] 

Ugo di san Vittore, paragonando le circostanze della falsa benevolenza mondana con quelle del vero affetto che Dio ci ispira e ci richiede, insegna molto solidamente a tutti quanti vogliono correggere cristianamente i loro fratelli a presentare anzitutto un’espressione un po’ seria e un po’ triste, perché questa salutare amarezza faccia trovare più dolce quel che la carità prepara loro. Egli dice che la gente mondana, il cui carattere proprio è la piaggeria, serve dapprima il vino buono – cioè vi rammolliscono di dolcezze smielate e di promesse –, e che alla fine vi danno solo dell’acqua, vale a dire un’indifferenza e una freddezza estreme mentre voi vi ritrovate nella necessità. Quanto diversamente Gesù Cristo, e con lui quanti vogliono imitarne lo stile, si comportano nei confronti di quei loro fratelli che meritano qualche correzione: poiché li amano intimamente desiderandoli uniti a Dio, li preparano a ricevere gli effetti della loro carità con qualche parvenza di amarezza e di tristezza, perché il male esteriore che essi causano faccia loro trovare | più dolce il bene vero e duraturo che essi auspicano per loro. 

Ivi, 133-136.138-139.140-142 passim

La discendenza dei figli di Caino 

Temperare dolcezza e severità sembra essere la chiave della correzione fraterna che i grandi maestri dello spirito unanimemente porgono a chi la cerca: essa però non è questione di “cosa fare” o di “cosa dire”, perché è sempre a questo proposito che Cristo obiettò “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45); non si può, cioè, simulare a lungo una disposizione che non si ha, e non la si può avere senza essere in comunione con il Messia, il quale solo conosce e trasforma i cuori. 

«Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello» (Mt 18,15), dice il Cristo, e segretamente noi chiosiamo: «Ma tanto non mi ascolterà… speriamo [che non mi ascolti]!». C’inganniamo sul senso delle parole trasmesse da Matteo: “avrai guadagnato il tuo fratello” non significa “avrai fatto un buon lavoro”, ma “avrai una responsabilità in più”. E a questo punto sentiamo un brivido sibilante lungo la schiena: «Vuoi rispondere di tuo fratello? Parla, figlio di Caino: dov’è tuo fratello?». Nessuno di noi – nessun uomo – è discendente di Abele. L’unico Innocente di cui, se accogliamo la sua Grazia, possiamo essere discendenza, è l’Abele «dal sangue che parla meglio» (Eb 12,24) di quello antico, perché non chiede la vendetta sul fratricida ma il perdono. Ci vuoi entrare, nella “compagnia dell’Agnello”? Veramente?

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