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Una donna davanti al mistero della morte di sua madre

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LightField Studios|Shutterstock

Paola Belletti - pubblicato il 01/02/22

Enrica Tesio, scrittrice, blogger, mamma; nel suo ultimo post ha parlato da figlia, nel pieno del dolore per la morte di sua mamma. Come si muore? che senso ha la vita? E Cristo, forse, non ha qualcosa da dire proprio su questo?

 (…) il giorno della fine ti servirà solo poterti dire amato, sentirti amato sulla terra. E per questo non serve a niente essere fighi, serve solo essere buoni.

Enrica Tesio, Cose che non sapevo sulla morte, Ti Asmo

Ecco di cosa avevo bisogno in questi giorni, di una voce così: vivace, furba finché vuoi, perché si vede che il suo mestiere sono le parole, ma autentica. E’ una voce vera quella che esce da queste righe, perché è così che dovrebbe sempre aiutarti a fare il mestiere, se è fatto bene: più sei bravo a usare lo scalpello, meglio ti riesce la scultura che hai in mente, e così sei un autentico Michelangelo, se ciò che avevi in mente è il David.

O sei un’eccellente donna contemporanea, separata, con due figli e ora onestamente piegata a metà dal male per la morte di tua madre, e ti accartocci come quando ti arriva una pallonata in pancia, non eri pronta, il pallone è di cuoio e chi lo calcia è bravo a calciare.

Avevo bisogno di imbattermi in una serie di parole così: semplici, affilate, aderenti alla realtà come uno scampolo di pellicola sulla fetta di formaggio che vuoi mettere in frigo, per “salvarlo”.

Sì, persino col formaggio avanzato ci proviamo: “non morire, fetta, resisti”. Perché anche tu ti corrompi e reclami sepoltura o degno riciclo nella frazione organica?

Ma questa, che straparla, sono io. L’autrice delle parole che mi hanno colpito come un colpo di vento gelido calato dal Circolo Polare Artico è Enrica Tesio: blogger e scrittrice seguita e affermata. Del suo blog ha fatto un libro, del libro un film. In questo post parla della morte di sua mamma, di come forse le sembra che si viva la morte ai giorni nostri e di come forse le sembra che si dovrebbe vivere, invece.

Parla persino di fede, nei commenti, e di come si è accorta di non averla ancora conosciuta sul serio. La fede nel Gesù vero, non in quello in cui la musica d’attesa di questa vita dove nessuno vuole perdere la priorità acquisita ci costringe e credere: qualcuno che è stato grande, sì vabbè, ma ora c’è solo la Chiesa con tutto il suo ciarpame che si merita di essere deriso e sbeffeggiato.

Dai commenti

Enrica Tesio, Ale Vagnoli hai ragione, Gesù ha detto solo cose giuste, io non sono religiosa, (e qua si sbaglia. Ha un insopprimibile, evidentissimo atteggiamento religioso, di domanda sul senso ultimo di tutto e di ogni inezia, NdR), anche se ho ricevuto un’educazione cattolica. Perché poi ho assorbito una controcultura dove tutto ciò che era legato al Cristianesimo era da sfottere, da ridicolizzare. Ci sto pensando molto ultimamente (grassetti miei, NdR).

Enrica Tesio, Facebook

Di cosa ci si deve interrogare, a ben guardare, se non circa il senso della vita e di quella ghigliottina già sospesa in direzione perpendicolare ai nostri colli, la morte? sorella, se vuoi, ma pur sempre una stronza.

Gesù Cristo, la salvezza, la fede

Che cosa grande da dire. Confessare la propria consapevole scompostezza di fronte alla morte, il fastidio per quanto il nostro life style condiviso ci costringe a fingere indifferenza e imbarazzo, a differire dolori, a dilazionare lacrime. Che cosa grande ammettere di avere malinteso la fede e di voler essere attenti a ciò che essa dice ed è realmente.

Diamo ordine alla mia, di scompostezza, allora. Ecco cosa racconta in questo post:

Asettica prepotenza

Non sapevo che la morte fosse questione di burocrazia. Tu vorresti piangere e invece devi firmare, devi decidere sulle ceneri, dove vuoi che vadano le ceneri? Allora dici piango domani, quando ho sistemato le ceneri, quando ho ritirato il certificato, quando ho svuotato la lavatrice o il frigo. E alla fine non piangi più. O piangi male, a tradimento.

Ibidem

Ha ragione, manca il tempo, non ci lasciano tempo per piangere chi è morto, non troviamo spazio da lasciare libero per sentire il vuoto che loro lasciano in noi. E’ morta pochi giorni fa la mia cara zia Rosella, madrina di Battesimo, sorella di papà, che però non vedevo quasi mai. Non appena mi ha raggiunto la notizia della sua morte, il flusso delle cose da fare mi ha ripreso in fretta nei suoi gorghi al punto che quasi non sono riuscita a fermarmi per soffrire. Per vedere che soffrivo.

Ho chiamato uno dei miei cugini, almeno. E quanta vita mi ha passato per telefono: ricordi, episodi, cose buffe, momenti solenni, promesse di vederci presto, assicurazioni di preghiera.

Troppe decisioni

Ci troviamo riempiti di cose da fare, di moduli da compilare e piccole decisioni, incalzanti, da prendere e che ci scostano sempre più lontano dalla decisione sola che conta: che ne faccio della mia vita, a chi la dono, in quale amore degno mi conviene consumarla?

Burocrazia è il potere dell’ufficio pubblico, ma uno solo sarebbe l’ufficio da portare avanti, coi ritmi giusti.

Bisognerebbe potersi fermare davvero e prenderlo in pieno volto tutto lo schiaffo che la morte di chi amiamo ci assesta, invece di rimandare.

Mia madre da quando è morta è morta circa ottantasette volte. Ogni volta che mi è tornata alla mente senza evocarla. La memoria tiene le persone in vita ti hanno insegnato, ma non ti hanno detto che quando ricordi muori un po’ tu. Inevitabile, pare che migliori con il tempo. Si ripete che la vita sia troppo breve, ma in realtà è la morte a essere troppo lunga.

Ibidem

La morte che non passa mai

Ha ragione, Enrica, la morte dura troppo, si fa strada in troppi giorni della vita di chi resta. E’ quello che non le si perdona, in fondo: di non essere abbastanza definitiva, di non venire davvero a togliere qualcosa e qualcuno di mezzo dal nostro cuore; di lasciarci trafitti di ricordi e nostalgie aspre come limoni.

Mi piace questo modo nudo di presentarsi, senza fingere virtù. La morte è terribile, ingiusta, contraddice sfacciatamente tutto ciò che il nostro essere reclama. Solo se la riscopriamo così, nella sua offesa alla nostra vera dignità, allora possiamo accorgerci vagamente di cosa significhi Cristo con la sua salvezza. Da cosa ci salva se non dalla morte e dal male di non essere compiuti?

Come si fa a morire?

Si domanda Enrica. Forse come si fa a nascere, facendolo guidati da forze che ora non sappiamo di avere. Ma come cristiani (o anche solo come atleti dilettanti) sappiamo invece quanto sia decisivo prepararsi, allenarsi, simulare il momento decisivo. Per essere pronti, almeno. Per sapere, come quando si è in travaglio, che le contrazioni faranno male, ma si alterneranno a fasi di riposo; che ci sarà forse un crescendo, che la coscienza non si spegnerà mai del tutto. Che ci aspetta una gioia?

Non si nasce in posizione fetale, cara Enrica; si ruota sulle spalle per uscire dal canale del parto che ci porta verso la luce (e l’aria, e il freddo, i rumori e – finalmente l’odore e la voce della mamma). Qualcosa succede di sicuro anche in punto di morte, anche se chi è vicino forse non vede, non sa.

Un altro caro zio, morto 4 anni fa, dice la mia cara cugina che un giorno prima di morire, da solo, forse non sapendo di essere visto, si è disegnato un ampio segno di croce come uno scudo sul petto. E’ morto pronto, da socialista convinto che era; così ci auguriamo tutti.

Morte, dov’è la tua vittoria?

Anche in questo rapido affresco degli ultimi istanti con sua madre passa un azzardo di tenerezza, un accenno di mistero, un’ostentata prosa che sa invece di versi in rima.

Non ci sono rivelazioni sul letto di morte, la persona che se ne va raramente ha tempo di dare consigli, elargire verità assolute. È tutta impegnata a morire, che è naturale e innaturale insieme, come il parto. Mia madre si è rintanata ed è morta nello stesso modo in cui è venuta al mondo, in posizione fetale. Sono l’ultima persona che ha riconosciuto, chi sono mamma? Il mio amore. La prendevo in giro: rispondendo così non avrebbe mai scontentato nessun parente al suo capezzale.

Ed infine la cosa più bella e vera: non si dovrebbe morire da soli, morire soli è disumano.

Per nascere e morire si dovrebbe essere almeno in due, il contrario è disumano e infatti viviamo tempi disumani, di travagli in solitudine, qualsiasi sia la direzione del travaglio, dal buio alla luce, dalla luce al buio.

Ibidem

Verissimo: quanto abbiamo patito a pensare a tutti quelli costretti a morire soli, senza saluti, senza mani calde da lasciar cadere dopo l’ultimo respiro in questi mesi che ormai sono annate? quanto abbiamo reclamato la giustizia del morire accompagnati? Eppure chi è cristiano deve dirlo: nessuno muore davvero solo. Spiriti fedeli si affollano, Madri celesti, Lei, la sola, si fanno trovare pronte, angeli custodi restano saldi a custodire fino alla fine. Ci sarà una folla, in punto di morte.

Alla fine della vita, cosa conterà?

Riflettevo di quanto sia figlia di questa cultura della forza individuale, di quante volte ho scelto di essere forte, coraggiosa, “figa”. Sola. Di quanto sentirmi apprezzata abbia sovrastato il sentirmi amata. Di quanto mi sia divertita a definire la mia identità sull’opposizione, sulla distanza dagli altri e sull’unicità. La morte se la guardi negli occhi ti dice, come scrisse battiato, che il giorno della fine non ti servirà l’inglese, né di aver avuto ragione negli scontri tra tifoserie, né di saper correggere i qual è del vicino, il giorno della fine ti servirà solo poterti dire amato, sentirti amato sulla terra. E per questo non serve a niente essere fighi, serve solo essere buoni.

Ibidem

Possiamo farcelo ricordare da chi capita, va benissimo Franco Battiato, meglio San Giovanni della Croce, meglio ancora Gesù stesso che ci avverte per tempo di non lasciarci distrarre da progetti marginali, come conquistare il mondo intero se poi, per farlo, perdiamo noi stessi. Ciò che conta alla fine della vita è esattamente quello che conta durante: l’amore. Essere amati, amare, lasciarsi amare.

O anche solo essere raggiunti dalla notizia che siamo già amati, preceduti da chilometri d’amore assolutamente immeritato sul quale possiamo lasciarci cadere e rimbalzare come bambini sui tappeti elastici. E volare fino all’ultimo salto che finirà nella braccia di.

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