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Un non battezzato che riceve l’Eucaristia fa la Comunione?

COMMUNION

Cavee | Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 18/02/22

Può davvero fare la Comunione chi non è membro della Chiesa? Un rompicapo teologico medievale ci aiuta a rispondere (nessuno si offenda!).

Ogni tanto capita una notizia come quella del sacerdote che per vent’anni ha amministrato il Battesimo (o altri sacramenti) con “formule sbagliate”: nel caso del primo fra i sacramenti questa eventualità comporta gravi conseguenze a catena, perché mina la validità canonica di tutto il percorso sacramentale delle persone coinvolte (e in vent’anni una persona ne fa tanta, di strada…). Immancabilmente, sorge allora qualcuno che trova eccessiva questa implicazione e accusa la Chiesa di eccessivo formalismo, fariseismo e via discendo. 

Abusi a destra e a manca 

Anche nel caso del nostro articolo riportate l’ultima notizia di questo genere, un lettore ci ha scritto che non si può invalidare tutto il percorso di fede di così tante persone «per una formula lievemente errata». Giova ricordare che il punto è questo: la formula del battesimo, nella fattispecie, deriva dal Nuovo Testamento ed è sempre stata adoperata in quella formulazione, anche quando non la si capiva appieno. “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” è una frase così semplice che (almeno nel nostro angolo di mondo) si può (ancora) presumere che davvero tutti la conoscano. 

La domanda è allora: come si può “sbagliarla”? E la risposta è, nella massima parte dei casi, che non si “sbaglio” si tratta, bensì di volontaria manomissione della formula: nel caso di specie – ossia nel caso in cui il ministro del culto cattolico assuma abitualmente la formula “noi ti battezziamo…” in luogo di “io ti battezzo” – la cosa procede normalmente da qualche sedicente “teologia del popolo”, spesso (ma non sempre) di estrazione sudamericana, mediamente banalotta, superficialotta e marxistotta, che per enfatizzare il ministero ecclesiale nella celebrazione del Battesimo eclissa l’io del ministro nell’afflato comunitario. È la versione “povera” e “di sinistra” di analoghi abusi più “intellettuali” che di solito si concentrano sulla terna trinitaria (ad esempio sostituendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” con cose come “nel nome del Donatore, del Donato e del Dono”) o sulla materia del battesimo: per quanto sembri pazzesco, il Denzinger raccoglie i rescritti della Santa Sede a vescovi che chiedevano se sia lecito battezzare con la birra (DH 829 – e no, non si può). 

Dov’è che la birra sarebbe più comune dell’acqua? Dov’è, gettando un’occhiata al sacramento eucaristico, che le ostie confezionate con mele e miele in aggiunta alla farina di frumento sarebbero più comuni del semplice pane azzimo di frumento? È chiaro che in tutti questi casi a determinare le variazioni non è un’esigenza materiale o un’ignoranza concettuale, ma la deliberata presunzione di poter alterare le componenti del sacramento

A prescindere dalle specifiche ragioni sull’opportunità di questo o quell’aspetto del rito sacramentale (perché solo farina di frumento? perché solo succo d’uva? perché solo acqua?), la questione fondamentale sta nell’attitudine di fronte ai sacramenti: se ci se ne riconosce ministri e dispensatori non ci si ritiene autorizzati a disporne come di cosa propria. Si potrà obiettare che tanti elementi, nei riti cristiani, sono stati variati e/o introdotti rispetto alle formule primitive o antiche (per quanto esse ci siano note): si pensi ai riti esplicativi nel Battesimo, alla goccia d’acqua nel calice col vino, al fatto che l’ostia di sola farina ha da molti secoli sostituito il pane… In cosa queste variazioni differirebbero da quelle di cui parliamo? Se ne potrebbe discutere nel dettaglio, e facilmente si giungerebbe ad affermare che alcune non intaccano l’essenza del sacramento mentre altre sì, ma quando ci si inoltrasse a chiedere come si distingua tra l’essenza del sacramento e i suoi aspetti accidentali si troverebbe che a monte c’è un giudizio previo della Chiesa, che da una parte raccoglie la prassi invalsa, la custodisce e la tramanda, e dall’altra si preoccupa di vagliare e disciplinare le variazioni gradualmente sopraggiunte. 

Insomma, la distorsione arbitraria e individuale delle parti di un rito sacramentale denota grave presunzione perché indica che non si sta agendo “ad mentem Ecclesiæ”, ossia con l’intenzione di amministrare sacramenti di Cristo ricordando che essi restano sempre cosa sua… ma “mettendoci del nostro”. Ecco perché con l’ateo che amministra il battesimo perché – poniamo il caso – raccoglie il figlio neonato di amici cattolici morti in un incidente, lo vede morente e pensa che i suoi genitori lo avrebbero voluto battezzare, si sarebbe generalmente più indulgenti in caso di sbavature inavvertite

La “manica larga” della Diocesi di Phoenix 

Non c’è dunque “formalismo farisaico” nel trattare i sacramenti come cosa di Cristo: per comprenderlo immaginate di dover tenere per qualche tempo l’automobile di un amico e figuratevi la faccia che farebbe, tornando, se glie la faceste trovare riverniciata o con un’inopinata serigrafia sulla fiancata. Nel caso del prete Andres Arango, che ci ha offerto l’occasione di proporre questo approfondimento, la Diocesi è stata anzi perfino “di manica larga” nell’applicare le norme canoniche, e questo con particolare riguardo alle prime comunioni. 

Mentre infatti alla domanda “l’invalidità del mio battesimo ha conseguenze sulla mia confermazione?” la risposta giunge secca e corretta – «sì: solo un battezzato riceve validamente la confermazione» –, nel caso della comunione la risposta giunge sfalsata in due tempi. Dapprima si legge infatti: 

No, questo non inficia la validità della tua Prima Comunione (o di ogni successiva santa comunione), perché si può fare soltanto una volta la Prima Comunione. Se hai ricevuto l’Eucaristia, anche da non battezzato, hai ricevuto la Santa Comunione. 

E poi prosegue: 

È importante ricordare che solo il battezzato può ricevere l’Eucaristia. Per favore astieniti dal ricevere la Santa Comunione fino a che il Battesimo, il primo sacramento, abbia avuto luogo. 

La medesima risposta, parola per parola, viene per giunta ripetuta in replica alla domanda successiva («Posso continuare a ricevere la Comunione?»). 

In questo i canonisti di Phoenix si sono dimostrati disposti a interpretazioni molto inclusive, ed è difficile rendere conto di questa larghezza ermeneutica senza considerare alcuni aspetti della devozione eucaristica negli Stati Uniti. Il Can. 912 del Codice di Diritto Canonico, infatti, vuole che 

ogni battezzato, il quale non ne abbia la proibizione dal diritto, può e deve essere ammesso alla sacra comunione. 

Ogni battezzato può e deve. Nessun altro. Dunque a che titolo si può affermare che abbia veramente fatto la Comunione un uomo che non è incorporato in Cristo? Personalmente, come accennavo, me lo spiego soltanto con il fisicismo di cui talvolta certa devozione eucaristica statunitense mi sembra innervata: ai nostri fratelli cowboy chiederei scherzosamente, visto il retaggio da mandriani che li macchiettizza, se una mucca che leccasse da un prato una particola consacrata che vi fosse giunta con una folata di vento dalla chiesetta attigua al pascolo faccia o non faccia la Comunione. A giudicare da quanto leggo sul sito della Diocesi di Phoenix, mi aspetto una risposta del tipo: «Certo che la farebbe, ma questo non dovrebbe esserle permesso». Poi sicuramente qualcuno obietterebbe: «Ma Nostro Signore ha istituito il sacramento per gli uomini… perché mettersi a parlare di mucche?». È vero, e difatti nessuno ha in mente di portare le bestie a catechismo, ma per questo si è proposto un quadro del tutto accidentale: «Se una folata di vento…». Si risponderà che il prete non deve lasciare la pisside aperta in caso di vento? Questa sarebbe una non-risposta. 

RATATOUILLE

«Cosa mangia il topo?»: un rompicapo medievale (e non solo)

Eppure tutte queste risposte (comprese le non-risposte), insieme con molte altre, furono già date molti secoli fa, diciamo tra il IX e il XIII, quando una questione analoga era diventata un vero rovello per i magistri theologiæ: lì non erano le mucche, a tormentare i sonni di canonisti e teologi, ma piuttosto i topi. Prima che qualcuno si atteggi a Obelix della situazione, sentenziando che «Sono Pazzi Questi Medievali», si tenga presente che le particole sono state custodite per secoli in cassette di legno (le antenate dei moderni tabernacoli in metallo), e che la questione di quid mus sumit [«che cosa mangia il topo»] si pose come problema pastorale prima che come dilemma teologico. 

Nel 1991 Gary Macy raccolse in un numero di Recherches de théologie ancienne et médiévale un discreto florilegio di autori intervenuti in questa quæstio veramente vexata: ne raccogliamo qui qualche spunto utile (e anche dilettevole, come si vedrà). Intorno al 1085, negli ultimi anni della sua vita, il famoso Berengario di Tours attaccò violentemente per la loro teologia eucaristica (di impronta marcatamente fisicistica) Lanfranco di Bec e Umberto di Silva Candida: se ogni consacrazione produce un nuovo corpo di Cristo, di quanti corpi disporrebbe Nostro Signore, dopo tanti secoli? E cosa ne sarebbe di tanti corpi, mangiati e digeriti milioni di volte dal I secolo ai nostri? Sarebbe davvero così esposto agli effetti corrosivi dei nostri succhi gastrici, e se sì perché non anche a quelli dei bruti? 

La prima dettagliata risposta a Berengario venne da Guitmondo, che più tardi sarebbe diventato vescovo di Aversa ma che allora era uno dei monaci di Bec: certamente – è la sua opinione – il Corpo e il Sangue del Signore restano nel sacramento anche quando le specie vengono mangiate da qualche animale. Anzi: 

Il Corpo di Cristo, come abbiamo già detto, giacque nel sepolcro e calpestò la terra: non si spaventerà certo delle oscurità del corpo di quale animale che sia! 

Insomma il topo mangerebbe senz’altro il Corpo e il Sangue del Signore, i quali del resto nella loro condizione glorificata non risentono affatto del rude trattamento. Guitmondo non fu certo il solo a prendere una posizione simile, anzi fu tra i più abili nello sfumarla: Odo di Ourscampo, Maurizio Sully, l’autore del Commentarius Porretanus e anche il celebre Pietro Comestor avrebbero assunto posizioni analoghe. 

Geraldo di Novara, all’inizio del XIII secolo, avrebbe cercato un altro paradosso: 

Si chiede se il topo assuma il corpo di Cristo. Il magister risponde di no. Ma che cosa mangerà, allora? Lo sa Dio! Eppure si può dire che lo assuma il topo, laddove è certo che anche il peggiore tra gli uomini possa assumerlo! Perché il topo no? Qual è la ragione? 

Forse Geraldo si era ispirato, per la sua posizione, ad Algero di Liège, che quasi un secolo prima aveva scritto nel suo De sacramentis corporis et sanguinis Dominici

…come si fa a dire che sarebbe più immondo [per il Signore] essere nel ventre di un topo piuttosto che nel ventre di un adultero impenitente? 

Ma lo stesso Algero già stava sviluppando prospettive più raffinate, che declinavano meglio l’intuizione di Guitmondo: il topo sarebbe arrivato a mangiare soltanto le species, che sono ovviamente quelle del pane, e non la sostanza del Corpo di Cristo. Ma la questione, come si comincia a vedere, era (ed è!) filosofica e metafisica: riguarda cioè la capacità di comprendere la categoria di “sostanza” in modo ontologico, ossia riferita all’immateriale principio di individuazione di quella res che il sacramentum significa. Non era facile e non è facile neanche oggi, dunque nessuno stupore che ci si divida e che si vada un po’ in confusione. 

Abelardo, Gilberto de la Porrée e diversi studenti di quest’ultimo avrebbero seguito il solco aperto, mentre altri, come il famoso arcivescovo di Canterbury Stephen Langton, affermarono 

che il corpo di Cristo si transustanzia in pane [sic!] quando il topo va a mangiarlo. 

La scuola di Laon si strinse al partito incline a distinguere fortemente le specie, su cui i denti del topo possono avere sicuramente effetto, e l’inafferrabile sostanza del Corpo di Cristo, ed è difficile trovare questa distinzione più irragionevole dell’improvvisa affermazione della “transustanziazione inversa”. Ci furono anche però quelli che alzarono le mani e non osarono prendere partito: «Lo sa Dio!», disse Pietro Lombardo nelle sue sentenze. Nei Commenti alla 1 Corinzi, però, lo stesso magister disse: 

Forse non mangia niente, o forse la sostanza del pane che sarà tornata sotto la sua specie… 

Geraldo di Galles, scrivendo agli inizi del XIII secolo, ricordò un incidente di cui affermò di essere stato testimone: un topo era entrato in un “tabernacolo” (probabilmente ligneo) e aveva banchettato con quello che vi aveva trovato; avrebbe lasciato dietro di sé «il corporale insanguinato». Il dettaglio pulp avvalorava insieme l’ipotesi che il topo mangiasse davvero il Corpo di Cristo e la tesi (fisicista) per cui di fatto le species del pane erano poco più che un trucco per camuffare la vera realtà del corpo di Cristo (tanto vera da poter sanguinare essendo sbranata dal topo!). Nella Gemma ecclesiastica si legge, a premessa del racconto: 

Il vescovo di Parigi Maurizio e il Manducator dicevano che il corpo del Signore viene assunto da un topo come è stato assunto da Giuda e tritato dai [suoi] denti maledicenti. 

L’Angelico fra metafisica e poesia

Non ci si stupisca né ci si scandalizzi per il raffronto tra il topo e Giuda: anche Tommaso avrebbe più volte affermato che il peccato rende l’uomo peggiore dell’animale. Lo si troverà curioso (o emblematico), ma nelle opere che del Dottore Angelico ci sono pervenute la questione del topo non è mai trattata… però l’Aquinate ci offre tutti gli strumenti teoretici per rispondere e per schivare le insidie sia del fisicismo di Geraldo sia del simbolismo di Berengario: il topo mangerebbe cioè soltanto gli accidenti del sacramento, ossia le sue specie (che poi sono quelle del pane e del vino), mentre la res del sacramentum gli resterebbe necessariamente inattingibile. E questo senza invocare miracoli o eccezionali sospensioni dell’ordine metafisico, ma semplicemente perché il sacramento è ordinato alla salvezza degli uomini, e cioè sono soltanto questi a poterne fruire utilmente, senza limitarsi all’usarne

Del resto, uno dei punti in cui Tommaso più altamente tocca la questione si trova non in un trattato dogmatico bensì in un testo poetico (lo si scorda spesso, ma l’Angelico fu altissimo innografo!). Attorno al 1264, su richiesta di Urbano IV e per la nuova festa del Corpus Domini, il Domenicano compose l’inno eucaristico Lauda Sion, e verso la metà del testo scrisse queste due sublimi terzine: 

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Da chi lo assume non viene masticato,
non viene spezzato, non viene tritato:
viene accolto intero. 

Lo assume uno, lo assumono mille:
quanti sono questi, tanto è Quegli,
e non si consuma nell’assunzione. 

I sofismi di Berengario, “teologo moderno”, restano per sempre sotterrati sotto una manciata di versi di Tommaso. Però farebbero bene a rileggerselo anche tanti che si professano suoi estimatori: è un attimo e ci si ritrova a dire (per quanto a mezza bocca) che si possa “fare la comunione” senza essere battezzati. 

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