"La cosa davvero difficile per un ateo è il fatto che tutti i valori - Perché valgo? Perché gli altri dovrebbero volermi bene? - dipendono interamente dalla performance personale". In Gesù - Aslan - ha trovato la radice dell'Amore che dà la vita anche per chi non è all'altezza e tradisce.
Quando ho incrociato la storia di Jordan Monge, raccontata in un breve video di Youtube, ho ritrovato in lei buona parte del mio percorso spirituale. Non sono mai stata atea, ma la conversione capita anche a chi si professa cristiano a voce, ma non lo è nell’esperienza.
Fu la voce di Don Giussani a scardinare tutti i miei criteri e ragionamenti, e quella sua inossidabile certezza sul fatto che chiunque prenda sul serio le domande essenziali sulla vita non può non incontrare il mistero buono di Dio. Così è stato anche per l’americana Jordan, intelligentissima e atea. Piena di domande e con una ferita da curare.
La cosa davvero difficile per un ateo è il fatto che tutti i valori – Perché valgo? Perché gli altri dovrebbero volermi bene? – dipendono interamente dalla performance personale.
Jordan Monge
Sergey Tinyakov | Shutterstock
Il lieto fine è quello che ciascuno di noi può testimoniare. Si va in cerca di risposte, e si trova Qualcuno. Domandiamo spiegazioni e c’imbattiamo in un incontro vivo.
Dovete capire che la mia famiglia è sempre stata molto competitiva, la priorità era: essere i migliori. Il mio stile di vita è diventato “devo essere sempre la più intelligente del gruppo”, non la più bella, la più sportiva ma: la più intelligente.
Non a caso il racconto di Jordan comincia da questa cornice domestica. L’educazione è una finestra sul mondo, e questa ragazza americana ci si è affacciata con l’ipotesi di dover essere di più. Lo sforzo competitivo che fin da piccola sente è quello di fondare il suo valore interamente sulle proprie azioni e sui risultati che ne conseguono. Inizialmente la sua voce si impone in modo eccellente. Non solo Jordan cresce atea, ma dall’età di 11 anni decide di sfidare i suoi compagni cristiani per smontare le loro ragioni.
Portavo la Bibbia a scuola, mostravo ai miei compagni i punti in cui il testo presentava delle contraddizioni e chiedevo loro: spiegami. Ma loro non ci riuscivano.
Le sapevano solo rispondere “ci vuole fede”, e a lei questa pareva una frase da codardi. Il ring di questa lotta è, ancora, puramente astratto e razionalistico. Eppure è evidente, tra le righe, che questa sete di confronto serrato, di fare domande, nasconde qualcosa di personalmente interrogativo. C’è un irrisolto dentro questa ragazza che, essendo davvero intelligente, pone anche a se stessa domande rivelatrici delle sue intime contraddizioni.
“Perché qualcosa è giusto o sbagliato?”, “Perché credo nei diritti umani?”. Non credevo in Dio, dunque queste evidenze sul bene e il male dove s’innestavano? Ho cominciato a chiederlo in giro, a tutti, e nessuno mi ha dato una risposta soddisfacente. Poi ho avuto un’epifania: andrò all’università a porre queste domande. E quindi ne dovevo scegliere una eccellente.
La scelta cade su Harvard, il cui motto è: “Verità”.
Il mondo accademico americano sa essere feroce quanto a competitività. Molti studenti si confrontano con la depressione proprio a fronte dei livelli di eccellenza richiesti nei campus. Può essere devastante fondare il proprio valore esclusivamente sul profilo che emerge dal quadro scolastico. Jordan Monge è stata tra coloro che, ambiziosi di partenza, hanno trovato nell’università il buco nero che provoca la competizione esasperata. Ma per lei è stata una benedetta doccia fredda.
Trovarmi in un ambiente in cui il 90% delle volte non ero la ‘più intelligente del gruppo’ ha distrutto la mia identità. Questo ha fatto sorgere due domande: chi sono davvero io? chi mi dice che valgo?